Sissi Bellomo, Il Sole 24 Ore 3/10/2014, 3 ottobre 2014
OPEC ALLA GUERRA DEI PREZZI
Sul mercato del petrolio, con il Brent ai minimi da due anni, erano in molti ad aspettarsi un taglio dall’Arabia Saudita. E un taglio c’è stato. Non della produzione però, bensì del listino prezzi: Riyadh ha scontato così tanto il suo greggio da rendere evidente a chiunque che la sua priorità – almeno in questo momento – non è quella di sostenere le quotazioni del barile, quanto piuttosto difendere le sue quote di mercato, sempre più insidiate dalla concorrenza (dentro e fuori dall’Opec).
Un’apertura di ostilità che rievoca il fantasma dell’«oil crash» del 1986, quando proprio i sauditi per riconquistare clienti non esitarono a schiantare il prezzo del greggio fino a 10 dollari, e alla quale il petrolio ha regito con un nuovo, violento strappo al ribasso: il Brent è crollato fino a 91,55 dollari al barile, il minimo da 28 mesi, entrando tecnicamente in bear market (la discesa rispetto al picco di 115 $ di giugno ha superato il 20%), mentre il Wti per la prima volta da aprile 2013 è sceso sotto 90 $, addirittura fino a 88,18 $/barile.
«Sembra che l’Opec si stia preparando alla guerra dei prezzi», ha commentato Carsten Fritsh, analista di Commerzbank. «Non ci aspettiamo che i prezzi ritrovino stabilità finché questa impressione non sarà scomparsa e l’Opec ritornerà a tagli di produzione coordinati».
Se davvero fossimo di fronte a un remake del 1986, il barile potrebbe crollare fino a 60 dollari. Sono in molti a prendere sul serio la minaccia, a cominciare dalla Russia, che – come altre economie emergenti – rischierebbe di andare a gambe all’aria: la banca centrale ha già predisposto un piano di emergenza per reagire ad un’eventualità del genere. Secondo alcuni analisti sarebbe proprio Mosca la vittima designata dell’operazione, che i sauditi avrebbero organizzato d’accordo con gli Usa: del resto uno dei motivi principali della recente caduta dei prezzi è l’abbondanza di shale oil americano.
Un periodo prolungato di prezzi troppo bassi metterebbe comunque a rischio anche altri Paesi, come il Venezuela, già sull’orlo del default, e molti altri produttori dell’Opec, che necessitano di quotazioni superiori a 100 $/barile per far quadrare il bilancio dello stato. Anche le compagnie petrolifere occidentali, costrette a confrontarsi con costi crescenti, sarebbero in difficoltà, specie sui progetti più dispendiosi come quelli offshore, nelle sabbie bituminose e nello shale oil, che per molti produttori Usa ha un breakeven intorno a 70 dollari. «Se il Wti continua a scendere sotto 90 $ – ha già messo in guardia Jeff Currie, head of commodities research di Goldman Sachs – molti fermeranno le trivelle e rallenteranno la produzione».
La pubblicazione degli Official Selling Prices (Osp) di novembre da parte della compagnia statale Saudi Aramco ha fatto davvero impressione. Riyadh, che già da mesi sta riducendo i prezzi in risposta alla debolezza dei consumi, stavolta ci è andata davvero pesante, con tagli che hanno raggiunto addirittura 1,20 $ al barile rispetto a ottobre: un’enormità rispetto agli standard del settore, abituato a oscillazioni spesso limitate a pochi centesimi. E le politiche più aggressive, con prezzi addirittura ai minimi dal 2008, hanno riguardato proprio le aree in cui i sauditi sentono più forte il peso della concorrenza: l’Asia e le qualità di greggio più leggere, quelle con caratteristiche simili allo shale oil americano e a tutti quei greggi che gli Usa – proprio grazie allo shale – oggi non importano più e dunque finiscono con l’essere dirottati sull’unico mercato promettente. Quello asiatico per l’appunto.
I principali concorrenti, quelli che l’Arabia Saudita vuole scacciare dai "suoi" mercati (e costringerli alla lunga a tagliare la produzione), sono quelli di sempre: l’Iran e l’Iraq. Ma la competizione da parte degli Usa ormai non è più soltanto indiretta.
A dispetto del divieto di esportare greggio, tuttora in vigore, gli americani stanno inviando all’estero un numero crescente di carichi: oltre 400mila barili al giorno in luglio, il quadruplo rispetto a un anno prima. Secondo Citigroup l’export potrebbe arrivare a un milione di barili al giorno a metà 2015, con destinazioni che ora non comprendono più solo il Canada: il primo carico di greggio dell’Alaska ad essere esportato dal 2004 è partito nei giorni scorsi verso la Corea del Sud ed erano andati in Asia anche i condensati che in giugno Washington aveva autorizzato all’export.
@SissiBellomo
Sissi Bellomo, Il Sole 24 Ore 3/10/2014