Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  ottobre 02 Giovedì calendario

TURISTI NUCLEARI


Dicono che per uccidere un uomo bastano cinque sievert di radiazioni; perciò ero curioso di vedere la lettura del mio dosimetro di fabbricazione russa nel momento in cui il pulmino turistico entrava nella zona di esclusione, la vasta area selvaggia delimitata per impedire l’accesso al territorio contaminato che circonda Chernobyl. Sfiliamo accanto a una fitta boscaglia di pini e betulle mentre la guida ci riassume le regole fondamentali: non raccogliete i funghi, che concentrano i radionuclidi, e non esponetevi al rischio di contaminazione mangiando o fumando all’aperto. Pochi minuti dopo superiamo il primo dei villaggi evacuati e accostiamo per ammirare un piccolo branco di cavalli di Przewalski.
A 28 anni dall’esplosione del reattore nucleare di Chernobyl, questa zona quasi del tutto disabitata è stata riconquistata dalla natura. Ci sono bisonti, cinghiali, alci, lupi, castori, falchi. Nella città fantasma di Pripyat le aquile si appollaiano sui tetti dei blocchi condominiali dell’era sovietica. I cavalli di Przewalski, una razza rara e in via di estinzione, sono stati liberati qui dieci anni dopo l’incidente, quando si ritenne che le radiazioni fossero scese a un livello tollerabile, e hanno più di 2.500 chilometri quadrati per vagare liberamente.
Do un’occhiata al mio dosimetro: 0,19 microsievert allora, una frazione di un milionesimo di sievert, l’unità di misura che si usa per rilevare il grado di esposizione alle radiazioni. Ancora niente di cui preoccuparsi. Finora, nel mio viaggio in Ucraina, i livelli più alti li ho rilevati sul volo da Chicago, mentre sorvolavamo la Groenlandia a 12 mila metri di quota: picchi di 3,5 microsievert all’ora per via dei raggi cosmici che attraversavano l’aereo e i corpi dei passeggeri. Tra i ricercatori che studiano Chernobyl ci sono opinioni discordi sugli effetti a lungo termine delle radiazioni su flora e fauna, finora sorprendentemente leggeri. Qui, almeno per gli animali, sono più pericolosi i bracconieri.
Raggiungiamo Zalesye, un ex villaggio di contadini dove possiamo vagare tra le case vuote. Finestre rotte, vernice scrostata, intonaco sbriciolato. Sul pavimento di una casa giace un ritratto di Lenin; una bambola è appesa per il collo alla parete di una camera da letto, come impiccata. Fuori, un’altra bambola siede accanto a un passeggino rotto. Sono i primi di una serie di macabri tributi che vedremo spesso nei nostri due giorni di permanenza nella zona. Bambole distese sui loro lettini, maschere antigas appese agli alberi... tableaux lasciati dai visitatori, autorizzati o clandestini, come silenziosi emblemi di un passato orrore.
Più avanti lungo la strada facciamo un incontro sorprendente: Rosalia è tra coloro che i funzionari definiscono “i rimpatriati”, persone anziane, per lo più donne, che si ostinano a vivere nel luogo che hanno sempre chiamato casa. Rosalia sembra contenta di avere un po’ di compagnia. Sollecitata dalla nostra guida, ci racconta di avversità peggiori di quelle attuali. Le terre intorno a Chernobyl fanno parte delle paludi del Pripyat; durante la Seconda guerra mondiale erano sul fronte orientale, e furono teatro di battaglie tra le più cruente. La donna ci parla dei soldati tedeschi e delle difficoltà della vita ai tempi di Stalin.
«Le radiazioni non si vedono», spiega in ucraino. E aggiunge che in ogni caso lei, che vive con cinque gatti, non ha intenzione di avere figli. Prima della nostra partenza vuole mostrarci il suo orto, confessandoci che il suo problema più grande è un parassita, la dorifora della patata.

QUALCOSA NELL’ANIMO UMANO ci attira verso i luoghi in cui sono avvenuti disastri indicibili. Posti come Pompei, Auschwitz, Treblinka, nei quali regna un silenzio inquietante. Oggi, nel XXI secolo, proviamo un’attrazione particolare per i siti dei disastri nucleari. Quasi cent’anni fa la fissione atomica fu salutata come la più grande scoperta umana dopo quella del fuoco: la liberazione delle forze racchiuse all’interno dei nuclei atomici avrebbe portato al mondo una quantità pressoché illimitata di energia. Inevitabilmente il primo impiego di quelle forze fu per scopi bellici, ma dopo Hiroshima e Nagasaki si compirono grandi sforzi per produrre energia elettrica a basso costo, liberando in parte il mondo dalla dipendenza dai combustibili fossili.
A più di mezzo secolo di distanza, il vorticoso simbolo dell’atomo, da emblema del progresso e del trionfo della tecnologia, si è trasformato in un simbolo di morte che viene associato al potere distruttivo delle armi atomiche o alla guerra fredda. A Stallion Gate, nel sud del New Mexico, ogni primavera folti gruppi di turisti si accalcano per l’apertura al pubblico del Trinity Site, il sito in cui fu effettuato il primo test della bomba atomica, una sorta di anteprima di quello che sarebbe accaduto quando i bombardieri avrebbero sganciato l’ordigno sul Giappone. Le visite mensili al Nevada Test Site, nel deserto del Mojave, dove durante la guerra fredda furono effettuati più di 1.000 test nucleari, sono già tutte prenotate fino alla fine del 2014.
Nel 2011 anche Chernobyl, teatro del peggior disastro mai avvenuto in una centrale nucleare, è stata dichiarata ufficialmente attrazione turistica.
Il solo concetto di “turismo nucleare”, emerso per la prima volta proprio nel periodo del disastro di Fukushima, sembra del tutto assurdo. Eppure è stata proprio questa assurdità ad attirarmi qua, assieme alla curiosità di vedere che aspetto avessero diversi piccoli centri abitati e un’intera città (a Pripyat vivevano quasi 50 mila persone) abbandonati in fretta e furia e lasciati in balia della natura.
A un centinaio di chilometri di distanza, a Kiev, la capitale dell’Ucraina, settimane di proteste violente hanno portato a febbraio all’espulsione del presidente e all’insediamento di un nuovo governo. In risposta la Russia ha occupato la Crimea, la penisola che dall’Ucraina si protende nel Mar Nero, e le truppe russe si sono ammassate al confine orientale dell’Ucraina. Paradossalmente, nel momento in cui scrivo, Chernobyl sembra il posto più sicuro dove stare. Ognuno dei temerari che dividono con me il pulmino ha i propri motivi per essere qui. John, un ragazzo di Londra, è appassionato di “turismo estremo”. Per la sua prossima avventura ha prenotato un viaggio in Corea del Nord e sta valutando le opzioni per fare bungee jumping da un elicottero. L’australiano Gavin e il viennese Georg lavorano invece a una performance artistica sul fenomeno della quarantena. Ma la più appariscente tra i miei compagni di viaggio è Anna, una giovane moscovita di poche parole. È vestita di nero, porta stivali foderati di pelliccia e una lunga chioma scura screziata da una mèche color magenta che mi fa pensare alla radioattività. È la terza volta che viene a Chernobyl, e ha già prenotato il prossimo tour di cinque giorni entro l’anno. «Mi attirano i posti abbandonati che cadono a pezzi e vanno in rovina», dice. Ma Anna apprezza soprattutto il silenzio di questa “natura selvaggia accidentale”.

NELLE PRIME ORE DEL 26 APRILE 1986, durante una chiusura programmata per la manutenzione di routine, agli operai del turno di notte del reattore numero 4 di Chernobyl fu affidato il compito di portare a termine un importante test di sicurezza che avrebbe dovuto essere effettuato il giorno prima da uno staff più numeroso e qualificato.
Nel giro di 40 secondi un brusco aumento della potenza fece surriscaldare il reattore, portando alla rottura di alcune tubazioni e innescando subito due esplosioni. La copertura d’asfalto dell’impianto prese fuoco, ma, cosa ben più grave, presero fuoco le barre di grafite che costituivano il nocciolo del reattore. Una nube di fumo e materiale radioattivo fuoriuscì nell’atmosfera, spingendosi a nord verso Bielorussia e Scandinavia. Nel giro di pochi giorni il fallout aveva raggiunto gran parte dell’Europa.
Per tutta la notte vigili del fuoco e squadre di soccorso affrontarono i pericoli più immediati; fuoco, fumo, grafite in fiamme. Ma c’erano altri pericoli, che non si potevano vedere né sentire, se non ore o giorni dopo l’incidente, quando cominciarono a manifestarsi i primi sintomi: veleni invisibili come isotopi del cesio, dello iodio, dello stronzio, del plutonio. Quegli uomini furono esposti a dosi di radiazioni fino a 16 sievert (non microsievert, ma sievert interi) molti più di quelli che un organismo umano è in grado di sopportare. Intanto a Pripyat, ad appena tre chilometri dalla centrale, gli operai di Chernobyl e le loro famiglie guardavano l’incendio dai balconi dei condomini.
Il mattino dopo la gente del posto si comportò come sempre: qualcuno andò a fare la spesa, qualcuno a seguire un corso, qualcuno al parco per un pic-nic. L’evacuazione ebbe inizio solo 36 ore dopo l’incidente, quando venne detto agli abitanti di raccogliere il necessario per tre-cinque giorni e di lasciare a casa gli animali domestici, implicando che tutti sarebbero rientrati nelle loro abitazioni dopo una rapida decontaminazione. Ma le cose non andarono così. Nell’area del disastro vennero subito inviate squadre di liquidatori che iniziarono a demolire gli edifici con i bulldozer e a ricoprire lo strato superficiale del terreno. I cani vennero uccisi a vista, e quasi 200 villaggi furono evacuati. Il bilancio immediato delle vittime fu inaspettatamente basso: tre operai investiti dall’esplosione e altri 28 morti nell’arco di un anno per avvelenamento da radiazioni. Ma col tempo si manifestarono altri effetti. A oggi, circa 6.000 persone che hanno assunto in giovane età latte o altri alimenti contaminati hanno contratto il cancro alla tiroide. In base ai dati rilevati a Hiroshima e Nagasaki, il tasso complessivo di mortalità da cancro potrebbe subire un leggero aumento tra le 600 mila persone (tra lavoratori e residenti) che sono state maggiormente esposte alle radiazioni, un aumento che potrebbe causare migliaia di morti premature. Dopo l’incidente viene eretto in tutta fretta il cosiddetto “sarcofago”, una struttura in cemento e acciaio nella quale è racchiuso il reattore. Quando nel sarcofago sono apparsi i primi segni di deterioramento è iniziata la costruzione di quello che è stato chiamato con ottimismo New Safe Confinement (nuovo confinamento sicuro), una struttura a volta di 32 mila tonnellate su rotaie che, una volta assemblata, verrà fatta scorrere fino a coprire il vecchio sarcofago. Stando alle ultime stime la nuova struttura sarà completata nel 2017. Intanto l’opera di bonifica va avanti. Secondo i piani del governo ucraino, entro il 2065 verranno smantellati sia i reattori che la centrale. In questo scenario da fantascienza, viene da domandarsi se nel 2065 ci sarà ancora un’Ucraina.

IL RICORDO PIÙ VIVIDO che ho delle ore trascorse a Pripyat è il suono dei vetri rotti sotto i piedi mentre cammino tra i letti e le culle vuote delle corsie d’ospedale, tra le sale operatorie cosparse di rifiuti, o i corridoi della scuola, tra cumuli di libri con il dorso strappato. Un’altra aula è piena di maschere antigas appese al soffitto o ammucchiate sul pavimento. Le nostre guide spiegano che le hanno lasciate gli “stalker”, quelli che si intrufolano clandestinamente nella zona. In un primo momento venivano per fare razzia di oggetti abbandonati, poi hanno cominciato a farlo per il fascino del proibito. Bevono dal fiume Pripyat e nuotano nella baia di Pripyat, sfidando le radiazioni e le guardie che controllano l’area.
Uno stalker che ho conosciuto in seguito a Kiev mi ha raccontato che è stato a Chernobyl centinaia di volte. «Immaginavo di trovare una vasta distesa bruciata, vuota e orribile», mi ha detto. Ha trovato invece foreste e fiumi, tutta questa bellezza contaminata.
Il nostro gruppo turistico si incammina lungo il bordo di una piscina pubblica vuota, con la piattaforma per i tuffi e il cronometro per le gare ancora intatti, poi sul pavimento dissestato di una palestra. Un edificio dopo l’altro, tutti in disfacimento. Visitiamo le macerie del Palazzo della Cultura, immaginandolo pieno di musica e risate, e il piccolo parco dei divertimenti con la sua grande ruota panoramica gialla. Poi, salendo 16 rampe di scale con il costante scricchiolio del vetro sotto i piedi, raggiungiamo il tetto di uno dei condomini più alti. Non c’è il corrimano, rimosso per recuperarne il metallo, e a ogni piano la tromba dell’ascensore si apre nel vuoto perché ne hanno divelto le porte. Non riesco a smettere di pensare che negli Stati Uniti un tour come questo sarebbe impossibile. Non ci fanno nemmeno indossare gli elmetti.
Dal tetto osserviamo quelli che una volta erano grandi viali e parchi progettati da paesaggisti, oggi completamente invasi dalla vegetazione. Un tempo salutata come città sovietica modello e paradiso dei lavoratori, oggi Pripyat viene lentamente riassorbita dalla terra.

TRASCORRIAMO LA NOTTE A CHERNOBYL. Più antica di Pripyat di otto secoli, oggi questa città ha l’aspetto di una base militare della Guerra Fredda. La mia camera d’albergo, con il suo arredo spartano, sembra far parte di un museo sulla vita nell’era sovietica. I livelli di radiazione nella mia camera non sono più alti di quelli che ho misurato quando sono tornato a casa in America.
Nel videogioco post-apocalittico intitolato S.T.A.L.K.E.R.: Shadow of Chernobyl, i visitatori virtuali del paese delle meraviglie radioattive identificano i punti in cui le radiazioni sono più alte tramite il bagliore bluastro che emanano. Per ridurre l’accumulo radioattivo ed evitare la malattia da radiazione basta bere della vodka russa virtuale.
Magari fosse così semplice. Il mattino dopo siamo quasi sprezzanti del rischio radiazioni. Siamo riuniti sotto i resti di una torre di raffreddamento quando la guida richiama la nostra attenzione esclamando: «Ehi, laggiù c’è un punto molto radioattivo! Andiamo a vedere!». Ce lo dice con la stessa naturalezza con cui ci mostrerebbe un monumento qualunque. Arrivati sul posto solleva una tavola che ricopre il punto caldo e noi ci chiniamo tutti con in mano i dosimetri che nel frattempo si sono messi a suonare freneticamente in una sorta di gara amichevole per vedere chi riesce a rilevare il livello di radiazioni più alto. Il mio dispositivo legge 112 microsievert allora, un livello 30 volte più alto di quello che avevo misurato sull’aereo durante il volo. Rimaniamo lì solo un minuto.
Il livello di radiazioni più alto lo rileviamo lo stesso giorno sulla lama di una scavatrice arrugginita usata all’epoca del disastro per sotterrare il terriccio superficiale radioattivo: 186 microsievert all’ora, un valore che rende sconsigliabile la sosta in quel punto, ma nulla in confronto ai livelli cui furono esposti i poveri pompieri e liquidatori che vennero qui subito dopo il disastro.
Rientrando a Kiev la nostra guida fa il conto delle radiazioni cui siamo stati esposti nel corso di tutto il tour: 10 microsievert per l’intera visita, durata un fine settimana.
Probabilmente ne accumulerò di più sul volo che mi riporterà a casa.

George Johnson è uno scrittore e giornalista scientifico americano. Nel nuovo libro fotografico The Long Shadow of Chernobyl, Gerd Ludwig ha raccolto 20 anni di immagini della città ucraina.