Marco De Martino, Vanity Fair 2/10/2014, 2 ottobre 2014
SENZA REGOLE, CHE GUSTO C’È?
La serata
comincia davanti a un bicchiere di
bourbon all’Old Ebbitt Grill, lo storico
ristorante di fianco alla Casa Bianca dove mangiano i protagonisti del suo libro dopo una giornata di lavoro con i Kennedy, nei giorni fatidici della crisi dei missili di Cuba e delle marce per i diritti civili di Martin Luther King. Abbiamo passato ore a rincorrere per Washington i fantasmi dei personaggi storici dei Giorni dell’eternità, ultimo libro della trilogia che racconta il Novecento attraverso le vicende intrecciate di cinque famiglie. Ed è quindi ora venuto il momento di rilassarsi e chiedere a Ken Follett che cosa lo spinga a violare la dieta che, come mi ha spiegato prima con orgoglio, gli ha fatto perdere 15 chili.
Lui sorride, fa capire che a certe cose non si può rinunciare e inizia a raccontare di bevute rituali con gli amici: «Una sera al mese scegliamo un cocktail e giriamo tutti i migliori bar di Londra per decidere dove viene fatto meglio. Le schede per i voti, divise in categorie che comprendono l’ambiente dei bar, le ha fatte un amico designer. Più avanza la serata e più i drink si restringono, fino alla cena finale». Con quale delle sue macchine torna a casa? «Non con la Rolls-Royce Ghost a due porte, quella di solito la guido io. Ho un’altra Rolls dello stesso colore, sempre nera e crema, una Wraith a quattro porte, per le serate che richiedono l’autista».
Non è solo perché ha venduto 150 milioni di copie che le presentazioni dei libri di Follett assomigliano più al lancio di un film hollywoodiano che a un’iniziativa editoriale. È chiaro che è proprio lui, l’autore gallese della Cruna dell’ago e di un’altra ventina di best seller, a ricavare piacere nel raccontare la meticolosità con cui lavora a ogni particolare delle sue opere. È questa la ragione per cui mi ritrovo a Washington per una giornata che inizia con la proiezione di un video sul viaggio in Greyhound (i famosi bus americani) che Follett ha fatto nel Sud degli Stati Uniti sulle orme dei Freedom Riders, gli studenti che negli anni Sessanta si battevano per i diritti civili e che vennero attaccati dal Ku Klux Klan in Alabama.
Il video è diretto da Jann Turner, figlia acquisita dello scrittore, che fa la regista a Los Angeles. In sala c’è però anche l’altro figlio Emanuele, che si occupa di nuovi mercati internazionali, oltre a suonare la chitarra nei Damn Right, I’ve Got the Blues, la band in cui Ken Follett fa il bassista. E a presiedere l’evento è Barbara Follett, moglie dello scrittore, che dopo essere stata ministro della Cultura prima e degli Enti locali poi nel governo di Gordon Brown, ora presiede l’azienda di famiglia e l’ufficio di 25 persone che lavora per Ken.
«Sono contenta, perché finalmente possiamo passare un po’ di tempo assieme», mi dirà poi raccontandomi del loro incontro a un raduno laburista nel 1982. «Io pensai che Ken fosse un bastardo arrogante. Lui che io fossi bossy, un po’ comandina. Qualche giorno dopo lo chiamai per dirgli che secondo me era uno scrittore mediocre, ma che avrebbe potuto rendersi utile scrivendo comunicati stampa per il partito. A sorpresa lui rispose che l’avrebbe fatto volentieri, e non ci siamo più lasciati». Quando chiedo a Follett se si tratta di una ricostruzione esatta lui conferma ogni particolare, ma aggiunge: «Lavoravamo bene assieme e ai nostri raduni partecipavano sempre centinaia di persone, nonostante vivessimo in un paese molto conservatore del Surrey. La maggior parte veniva per la degustazione di Beaujolais nouveau che io organizzavo come esca al termine della manifestazione politica».
La prima tappa del tour I giorni dell’eternità - Washington 2014 (ho anche al collo un pass che lo specifica) è al National Cemetery di Arlington, dove ci fermiamo davanti alla collina dove sono sepolti i fratelli Kennedy. «Da giovane pensavo che John Fitzgerald Kennedy fosse responsabile dell’escalation della guerra in Vietnam, ma lavorando al libro mi sono dovuto ricredere: fu il Pentagono a volere l’escalation contro cui lui si opponeva». Nel libro lui ha una giovane amante nera, Maria, una storia basata sulla vera relazione che Kennedy ebbe con una giovane addetta stampa: non è strano che Kennedy sia arrivato tardi a considerare i diritti civili? «No, Maria avrebbe potuto forse toccare il cuore di Kennedy ma non influenzare un uomo così potente: non era il suo ruolo, non in quei tempi. Furono le manifestazioni nel Sud a fare cambiare opinione a un presidente che fino a quel punto era più che altro interessato alla politica estera».
Lei negli anni Sessanta era impegnato? «Certo. Ero uno studente a Londra, pieno di rabbia per la guerra del Vietnam e di fervore per i diritti civili dei neri, che sentivamo vicini anche per la lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Ma non sopportavo i marxisti, che mi sembravano come i miei genitori: puritani da cui rifuggire. Io credevo nel rock and roll, non certo nell’andare nelle fabbriche a insegnare agli operai il comunismo». Suonava già? «Le canzoni folk, in particolare Blowin’ In the Wind e le altre di Bob Dylan, che erano facili da suonare». Non era anche l’epoca dei Beatles? «Li amavo, ma non ero capace, troppo complicati».
Pochi minuti dopo siamo al National Monument. Alle spalle c’è il mausoleo di Lincoln, davanti la vasca del Mall: Ken Follett si fa fotografare con in mano le edizioni internazionali del libro nel punto esatto in cui Martin Luther King pronunciò il 28 agosto del 1963 il suo più famoso discorso: I Have A Dream: «Di tutti i personaggi di quell’epoca lui è quello che avrei voluto più di tutti incontrare: magari aveva i suoi difetti nella vita personale ma era un gigante, un uomo di enorme statura morale che seppe elevarsi mentre gli altri chiedevano vendetta». A ogni passo bisogna fermarsi perché qualcuno lo riconosce e chiede un autografo: una coppia di turisti italiani dice che la copertina dell’edizione tedesca è sbagliata, perché raffigura la Porta di Brandeburgo, e bisogna spiegargli che il libro è ambientato anche a Mosca, Londra e Berlino.
Poco dopo siamo davanti a una sezione del Muro che divideva la città tedesca. Fa parte dei pezzi esposti al Newseum, il museo interattivo del giornalismo: «Ne ho un pezzo anch’io, ma più basso di questo, lo tengo in giardino, all’inizio avevamo un po’ paura che cadesse, ma ora siamo più tranquilli», dice Follett. «Me l’ha regalato il mio editore tedesco quando ho compiuto 65 anni, lo scorso giugno». È un’età che le piace? «Sto benissimo, mi diverto a lavorare e passo molto tempo con i miei sei nipoti». Che nonno è? «Molto diverso dal padre che ero. Allora ero sempre occupato, pensavo molto alla carriera e ai problemi economici. Ora credo che la cosa più importante sia il tempo che passo coi bambini, anche perché so che è una fase che non dura molto».
Entriamo al Congresso e nella President’s Room, la stanza dove i presidenti americani incontravano i senatori. Follett raduna tutti per una foto di gruppo ma fa l’errore di chiedere alle donne di sedersi in prima fila sui divani. Immediata e stizzita la reazione di sua moglie Barbara: «Non ho capito perché sono sempre le donne che devono stare sedute». Follett ride: «Succede spesso, anche sul lavoro spesso non siamo d’accordo ma poi esaminati i fatti mi rendo conto che lei ha sempre ragione». Vi dà egualmente fastidio essere definiti dalla stampa inglese Champagne socialist? «A Barbara, che non beve, quella definizione non piace. A me non interessa perché adoro lo champagne, specie il Krug rosé: per fortuna ci sono i ricchi a sostenere le cause giuste, altrimenti perderemmo sempre». Veste benissimo: le piace fare shopping? «Mi diverto da impazzire, qualche giorno fa ero da Varvatos, avrei comprato tutto: da giovane guardando le vetrine avevo solo pensieri negativi sulla mancanza di soldi, ora è tutta un’altra cosa». Ci sono piaceri che ha aggiunto di recente alla sua vita sibaritica? «Sì, le visite alle case storiche: io e Barbara le adoriamo, credo che sia un effetto dell’età».
Il giorno dopo chiedo a Follett se tiene d’occhio gli altri scrittori di best seller: «Sempre, se qualcuno ha successo voglio sapere cosa fa di giusto. Il mio preferito è Stephen King, e non solo perché suona anche lui e una volta abbiamo fatto una jam session con Bruce Springsteen cantando tutti insieme Gloria di Jimi Hendrix. Ho letto tutto Lee Child: il suo personaggio Jack Reacher è il nuovo James Bond. Trovo interessante anche il metodo Grisham: nei suoi libri c’è sempre un’ingiustizia, e qualcuno che vi pone rimedio, di solito un avvocato. Di Dan Brown ho ammirato Il codice Da Vinci, un capolavoro. E penso che J.K. Rowling meriti ogni milione che ha guadagnato, perché da sola ha fatto più di tutti noi per invogliare i bambini a leggere». Più in generale, le piace il fantasy? «Solo se ha base scientifica, il resto no. Odio gli elfi. Se non c’è nessuna regola, che gusto c’è?».