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 2014  settembre 28 Domenica calendario

DANTE E BOCCACCIO SBAGLIANO I CONGIUNTIVI


«Scialla prof, se piscio il congiuntivo, me ne sbatto dell’itagliano coretto!» dichiarano i nostri adolescenti nelle aule scolastiche mentre i poveri docenti suggeriscono pigramente qualche abbozzo di verbo coniugato e a nulla vale che i genitori si giustifichino sbandierando una laurea in Lettere faticosamente conquistata superando esami con i più illustri latinisti, linguisti e letterati del dopoguerra. A difendere la rivolta delle nuove generazioni, che vantano tablet in luogo di libri, touchscreen al posto di penne, e-mail invece di lettere o chat collettive piuttosto che telefonate, interviene il libro dello storico della lingua Giuseppe Antonelli «Comunque anche Leopardi diceva le parolacce», edito da Mondadori. Il sommo poeta de «L’infinito» non conosce più quiete da quando scorrazza nelle pellicole cinematografiche come un «giovane favoloso», firma ricette culinarie per casalinghe in cerca di novità e ora diventa addirittura l’icona nobilitante della coprolalia diffusa nel nostro Paese, soprattutto dalla politica. «Se si ama la propria lingua, non c’è peggior delitto di volerla seppellire viva. Di ibernarla in nome di una mai esistita èra glaciale della perfezione» si legge nel saggio-pamphlet che sfida il conservatorismo maniacale degli Accademici della Crusca quanto le profezie disfattiste sulla morte della scrittura decretata dal digitale. La progressiva evoluzione del parlato registrata inevitabilmente dall’espressione letteraria vale sicuramente di più per una lingua, come l’italiano, che ha avuto per primo nome «il volgare», a ribadire la sua origine popolare e la sua distanza dall’ufficialità dominante e proditoriamente unitaria del latino. Esempi gloriosi di trasgressioni all’italiano codificato, probabilmente mai esistito davvero se non dopo la sua diffusione televisiva grazie alle studiate pronunce dei doppiatori alieni dalle coloriture dialettali, sono rintracciate da Antonelli proprio nelle pagine dei sacri testi di Dante («perché non ti facci meraviglia») o di Boccaccio («ove che tu vadi») che però avevano l’autorità di fondatori di un bene comune ancora non riconosciuto. E se le libertà grammaticali di Pirandello, peraltro pure professore al Magistero, e Landolfi vanno considerate come licenze poetiche, se non vogliamo addirittura arrivare a incriminare i neologismi di D’Annunzio, di fatto è indubbio che la scrittura perfetta non sia valutabile con la stessa meccanicità con cui si giudica un’operazione matematica. È questo ovviamente il fascino delle materie umanistiche che non sono paragonabili alle scienze esatte perché come la vita e l’anima non rispondono a criteri oggettivi o universali, ma a un flusso di coscienza, a una libido che tutto coinvolge, travolge e cambia come già aveva capito Eraclito. A scardinare il canone estetico della forma ratificata dai manuali scolastici contribuiscono le prosperanti innovazioni tecnologiche votate a una comunicazione breve, rapida, confidenziale e d’effetto. La lingua si adatta al mezzo e muta le sue convenzioni. Se fino a tre anni fa le 160 battute di un sms a pagamento richiedevano abbreviazioni da dattilografi creativi come «A k h? Va bn cmq qnd 6 libero», adesso il pressoché gratuito what’s app permette di ristabilire il normale quantitativo delle lettere, fatto salvo l’uso gergale di appellativi come «Bella, fra». Nella giungla dei botta e risposta telematici c’è però un aspetto meno scoraggiante. Se per anni il telefono ha falcidiato i rapporti epistolari, questa rivoluzione digitale recupera il gusto della parola non detta a voce. «Verba volant, scripta manent» è l’antico attualissimo motto che suggella gli scambi sui social network. Si finisce per riscoprire il piacere di esserci, raccontarsi, di trasformare stati d’animo in coniazioni linguistiche. La gente comune impara a cimentarsi con una scrittura quotidiana e riprende a interrogarsi sulla punteggiatura o sull’ortografia anche se ha da tempo terminato gli studi. Ecco allora che l’eventuale errore diventa motivo di dibattito e in chat si risvegliano nozioni apprese dagli insegnanti o si consigliano i siti della Treccani on line. L’attaccamento alla propria lingua si risveglia, si muove, agita e indigna. Quello che conta, infatti, è il senso di appartenenza e di vitalità che racchiude. Il lessico diventa un abito, un habitus, un habitat. È la vetrina che ci colloca e ci connota. È il nostro look culturale, classico o alla moda, come vogliamo che sia e che appaia. «Poeti si nasce e io lo nacqui», può scrivere ciascuno di noi.