Moreno Pisto, Riders 10/2014, 2 ottobre 2014
Intervista ad Alex Zanardi– A un certo punto piango. Capita all’inizio dell’intervista con Alex Zanardi, ci siamo appena messi a sedere nel giardino della sua villa a pochi chilometri da Padova, e mi racconta che lui sì, per carità, è andato oltre ogni aspettativa, ma in fin dei conti senza le gambe ha continuato a fare quello che faceva prima, cioè l’atleta, e che gli esempi veri sono altri, tipo «un signore che ho incontrato al centro dove facevo la riabilitazione e sembrava disperato, allora mi sono avvicinato e quando ha alzato lo sguardo ho visto che aveva un sorriso che gli arrivava da un orecchio all’altro e mi ha spiegato che quelle erano lacrime di gioia perché sua figlia era nata senza gambe e avevano dovuto aspettare quattro anni prima di fargli le protesi, proprio quel giorno
Intervista ad Alex Zanardi– A un certo punto piango. Capita all’inizio dell’intervista con Alex Zanardi, ci siamo appena messi a sedere nel giardino della sua villa a pochi chilometri da Padova, e mi racconta che lui sì, per carità, è andato oltre ogni aspettativa, ma in fin dei conti senza le gambe ha continuato a fare quello che faceva prima, cioè l’atleta, e che gli esempi veri sono altri, tipo «un signore che ho incontrato al centro dove facevo la riabilitazione e sembrava disperato, allora mi sono avvicinato e quando ha alzato lo sguardo ho visto che aveva un sorriso che gli arrivava da un orecchio all’altro e mi ha spiegato che quelle erano lacrime di gioia perché sua figlia era nata senza gambe e avevano dovuto aspettare quattro anni prima di fargli le protesi, proprio quel giorno. Però quando gli han messo le protesi i medici gli han chiesto: “E le scarpe?”. Lui non le aveva, quindi è scappato nel negozio più vicino e quando le ha prese non ci credeva, aveva in mano il primo paio di scarpe di sua figlia e per questo motivo era felice». Sarà che sono un genitore, e un genitore di una bambina disabile, e so quanto una piccola conquista per gli altri, possa essere grande e importante per te. Zanardi si accorge che ho le lacrime agli occhi, sorride e continua a parlare col suo tono e il ritmo di voce rassicuranti. Per quanto possa sminuire o ridimensionare la propria importanza, Alex è un esempio. Un giornalista, Carlo Verdelli, lo ha definito «la cosa più prossima a un eroe». Riesce a tenere unite in modo sublime due aspetti che di solito sono in contrasto: un’umanità incredibile (già spiccata prima dell’episodio del 2001) e una competitività spietata tipica degli sportivi e dei vincenti. La sua vita è immensa e dolorosa. Ha perso la sorella poco più grande di lui, morta a 15 anni per un incidente stradale, il padre poco prima di vincere due Mondiali di FCart nel 97 e 98, le gambe a poche gare dalla fine di quella che aveva già deciso essere la sua ultima stagione. Nonostante queste mazzate la sua biografia, pubblicata nel 2003 e scritta con Gianluca Gasparini (...però, Zanardi da Castel Maggiore, Baldini e Castoldi), si chiude così: «Da handicappato credo di aver dimostrato qualcosa. Di aver fatto sapere a tanti che certi traguardi, una volta raggiunti, possono sembrare magici ma di magico hanno poco. Io non sono Superman. Sono solo un tipo ottimista che ha avuto una vita meravigliosa e continua ad averla perché sa apprezzare quanto di buono rimasto. E adesso, sotto con il resto». Il resto sono state medaglie d’oro alle Paralimpiadi, ai Mondiali di ciclismo e l’11 ottobre la partecipazione all’Ironman, la gara più dura sulla faccia della terra, divisa in tre parti: la prima a nuoto per quattro chilometri, la seconda in bici (che Alex farà con la handbike) per 180, la terza a corsa per 42 (e qui userà la carrozzina olimpica). «Non avevo la minima idea di cosa sarebbe stato il resto della mia carriera, però io sono uno molto aperto alle possibilità che il destino ti offre e alle cose che il destino decide per te. Anche un evento apparentemente drammatico può rivelarsi un’opportunità se hai abbastanza curiosità ed entusiasmo. Vedi, quando mi comperarono il go-kart, a mezzanotte i miei genitori mi trovavano addormentato lì dentro, perché a me non me ne fregava niente di arrivare in F1, a me interessava fare quella strada lì e viverla giorno dopo giorno. Il valore assoluto della mia vita è stato poter fare giorno dopo giorno la cosa che amavo. A me è sempre interessato ritornare a una vita che mi desse soddisfazione. È logico, vincere di fronte a milioni di telespettatori una medaglia d’oro olimpica è una cosa meravigliosa, detto questo però anche il primo giorno in cui mi sono rialzato su un paio di protesi e mi sono ritrovato a fare la pipi in piedi e mentre ero lì ci ho pensato e ho detto bello, è la prima volta che piscio in piedi dopo l’incidente; anche in quel momento lì mi sono sentito realizzato, pure se non c’era nessuno a guardarmi, per fortuna. Però, fatto questo, mi sono detto: e adesso perché dovrei fermarmi? Forse la mia risorsa più grande è stata non perdere la curiosità. Tutto qui, e se per qualcuno tutto ciò può essere d’ispirazione e stimolo per andare avanti e provarci, a me si scalda il cuore. Ma non sarei credibile se dicessi che mi sento un eroe». Hanno detto: l’Ironman è una follia. «Rispondo che non è così, ci ho ragionato: io credo di avere quella distanza nelle braccia, anzi il fatto di non avere le gambe non dico che in certi frangenti della gara sia un vantaggio, ma quasi. La maratona è una roba contro natura, tu pensa a farla dopo che hai nuotato e fatto 180 chilometri in bici, io almeno non mi ritroverò a gareggiare sulle mie gambe, ma spingendo la carrozzina. Il mio vantaggio è che dopo tanti anni di handbike le microvene delle mie braccia sembrano dei capillari, i capillari vene e le vene quasi arterie e ci arriva un sacco di sangue. Quindi alcune decisioni, come alcuni sorpassi che ho fatto, su tutti quello al Cavatappi di Laguna Seca, possono sembrare atteggiamenti da pazzi, istintivi, improvvisati all’istante, invece sono l’esecuzione di un progetto che io in qualche modo avevo ritenuto possibile, mentre tutti lo consideravano impossibile. Come? Non tralasciando alcun dettaglio e non accontentandosi di chi diceva no, questo non si può fare. Credo che questa sia la definizione del coraggio applicato allo sport». Hai chiesto un boccaglio per affrontare la parte del nuoto, perché per respirare dovrai tirare su la testa ed essendo senza gambe il bacino si sbilancerebbe e finiresti sott’acqua. Te lo daranno? «Boh, spero di sì, sennò vorrà dire che ne berrò un sacco e farò scorta di sali minerali». Chi vince l’Ironman ci mette circa otto ore, gli ultimi arrivano dopo 18, 20 ore. Tu hai detto: «L’obiettivo è finire un secondo sotto le dieci ore». Come ti sei preparato? «Io sono al cento per cento dai Mondiali di ciclismo, lo scorso agosto ho vinto due medaglie d’oro e una d’argento, diciamo che a livello muscolare sono molto allenato. La prima volta che mi sono tuffato in acqua, per esempio, volevo vedere se riuscivo a fare quattro chilometri e li ho fatti, non è che dopo il primo mi son fermato esausto. La base ce l’ho. Poi, ovvio, fondamentale sarà l’impostazione della mia andatura di gara, l’idratazione, l’alimentazione». In più sei tornato a correre in auto, nella Blancpain GT Series con una BMW Z4 da 515 cavalli. Sei soddisfatto? «È un campionato nel quale corrono insieme macchine molto diverse e quindi va da se che certe piste esaltano le caratteristiche della nostra macchina e altre no. In Slovacchia, per esempio, se il secondo e il terzo non mi fossero venuti addosso mentre ero in testa avrei vinto. Insomma, quando la macchina funziona io sono dove devo essere. Nonostante la ruggine, perché erano quattro anni che non salivo su un’auto da corsa. Il prossimo anno andrà meglio. BMW mi ha già detto che stanno mettendo da parte i soldi, stanno facendo mosina, come si dice a Bologna, per farmi continuare a correre». Carl Fogarty, l’ex pilota della SBK, disse: «I bravi ragazzi non vincono mai». Però tu sei un bravo ragazzo, Marc Marquez lo è. Cosa rispondi? «Sono punti di vista, il mio è diverso. Lo vorrei dire anche a Rosberg, perché secondo me lui è un ragazzo eccezionale. Mi sembra che qualcuno lo abbia spinto a recitare la parte del cattivo, che non è la sua». Mansell, Berger, Patrese, Schumacher e altri. Qual è il più forte tra gli avversari che hai incontrato? «Oggettivamente il più forte è stato Ayrton Senna ma se tu mi avessi chiesto quale pilota ho mai cercato di emulare, io ti avrei risposto Mansell. Perché quando era nella giornata buona era fantastico. Era come Superpippo quando prendeva le arachidi, solo che non si ricordava mai dove le aveva messe per cui gli riusciva di rado. Ecco, in MotoGP Marquez riesce ogni gara ad essere Mansell nella giornata buona». Sei mai andato a trovare Schumacher dopo il suo incidente? «No, perché avrei dovuto? Io non sono mica suo fratello né un amico, che diritto avevo di farmi vedere... Certo, se domani mattina mi arrivasse una richiesta per aiutare lui o la sua famiglia dato che ho già passato un’esperienza un po’ particolare, lo farei subito». Scegli: Marchionne o Montezemolo? «Non li conosco, anche se a uno gli ho dato del busone da combattimento e non era Marchionne». Cosa? «Ero col mitico Candido Cannavò, l’ex direttore de La Gazzetta dello Sport, e avevamo passato molto tempo a parlare di Gianluca Gasparini che lui chiama affettuosamente Luca. A fine giornata mi fa (imita la voce acuta di Cannavò): “Ma che giornata mi hai fatto passare, Alex, mi sono proprio divertito. Aspetta che chiamiamo Luca e lo salutiamo”. Fa il numero e gli sento dire: “Luca, sono Candido, come stai, son qua col nostro amico Alex, aspetta che te lo passo”. Me lo passa e io subito: “Busone da combattimento!”. Sento: “Pronto, ma chi parla?”. Merda, era Luca sì, ma Luca di Montezemolo… Gli spiegai la cosa e lui si mise a ridere. Comunque sotto la sua guida la Ferrari ha vinto tanto e lui era un uomo che il marchio Ferrari ce l’aveva ricamato anche sul pigiama col quale andava a letto. Marchionne questa cosa la dovrà dimostrare al pubblico perché credo sia una caratteristica necessaria: per guidare la Ferrari al successo non basta soltanto essere scaltri e capaci, bisogna essere appassionati alla causa. Non ha un compito facilissimo perché secondo me è abituato a lavorare in altra farina». Zanardi team manager, sarà possibile un giorno? «No. A parte che Zanardi si diverte troppo a far lo sportivo, prima o poi sarà giusto anche lasciarlo un po’ riposare perché la moglie non ne può più ormai. Quando gli ho detto dell’Iron mi ha risposto ma te sei scemo, ma perché devi fare ste robe qua, ma poi dove sarebbe sta gara? È alle Hawaii… Ah no, ha detto, allora vengo anch’io». Nella tua biografia raccontavi che di tanto in tanto ti ritornava qualche immagine dell’incidente e che un giorno forse la scena tornerà del tutto. Oggi è tornata? «L’immagine no, è tornato qualcosa. Per esempio io vedo le mie mani che cercano di controllare il volante nel momento in cui la macchina sbanda e non mi ricordo di nient’altro». Il nient’altro è questo: nel 2001 Zanardi non sta andando molto bene, però da qualche gara è in crescita; a 13 giri dalla fine del Gran Premio di Lausitzring, Germania, rientra ai box. Uscendo pensa: è fatta, questa volta la vittoria è alla portata. Invece poco dopo perde il controllo, la prima auto lo evita, la seconda taglia in due la sua macchina, letteralmente. Si risveglia in ospedale, sua moglie Daniela senza giri di parole gli dice: «Alex, non hai più le gambe, da oggi la tua vita sarà diversa». La risposta di Zanardi, in sintesi, è più o meno questa: «Ok, se non muoio più allora lasciami dormire che sono stanco». E vita diversa in effetti è stata. Migliore. Alex ripete spesso: «Se non mi fosse accaduto l’incidente avrei due gambe in più ma non sarei così felice». E la sua felicità si misura in ogni passo che fa con le protesi, in ogni movimento innaturale che per lui invece è diventato naturale. Per fissare le ruote alla sua handbike, non potendosi piegare sulle ginocchia, si lascia cadere quasi a peso morto, frontalmente, appoggiandosi sulle mani e poi trovando la posizione che gli permette di fare quello che deve. Io e gli altri presenti assistiamo senza fiatare e probabilmente ha ragione Zanardi quando dice che queste cose le fanno in tanti, non bisogna per forza avere il suo nome e cognome per riuscirci, ma passandoci una mezza giornata insieme mi sono detto che non potevo non applicare nei suoi confronti il senso di meraviglia che lui applica verso qualsiasi aspetto della vita, anche il più insignificante. In una pausa del servizio fotografico, dice: «La vita è come il caffè. Puoi metterci tutto lo zucchero che vuoi, ma se lo vuoi far diventare dolce devi girare il cucchiaino. A stare fermi non succede niente». Dopo lo shooting si va a cambiare e torna vestito con la tuta, senza le protesi, pronto per allenarsi. L’ultima volta che hai detto ti amo? «Ieri sera a mio figlio Nicolò non ho detto ti amo, ma qualcosa di molto simile». Uno dice Alex Zanardi e pensa: sarà un padre perfetto. Qualche difetto ce l’hai? «Ma scherzi? Tipo voler trasmettere delle cose a mio figlio e non avere su di lui l’ascendente giusto per riuscire a fargliele passare, rendendomi conto che suono più da rompicoglioni che da saggio, però poi vado nel mio capannino, prendo un attrezzo e di colpo vedo, come un flash che mi fa venire la pelle d’oca, la mano di mio padre invece della mia e mi rendo conto che sto facendo la cosa esattamente nel modo in cui me l’aveva insegnata lui e allora dico: oh, io con mio padre ero uguale, lui mi parlava e io, sì sì sì, ho capito, però nonostante la mia reazione, la sua lezione è arrivata». Un momento con tuo padre che ti porterai per sempre dentro. «È legato a una gara di go-kart, quella di Hong Kong, dove arrivammo e doveva essere tutto pronto e invece trovammo una situazione disastrosa. Mio padre, anche se aveva un carattere esplosivo e a volte perdeva il controllo, quando lo ritrovava aveva questa grande capacità di allineare i problemi e di concentrarsi su una cosa alla volta. Lui mi ha insegnato che ogni giornata puoi fare qualche cosa. Anche dopo il mio incidente mi sono detto di cominciare a rimettere a posto le cose pian pianino e di capire dove volevo andare e cosa potevo fare nella situazione in cui ero. Morale: alla fine mettemmo tutto a posto e quella gara la vinsi. Mio papà è mancato proprio alla vigilia delle soddisfazioni più grandi. Penso che avrebbe provato grande gioia a vedermi vincere i campionati o altre gare ma poi penso anche che più felice di quel giorno non sarebbe mai potuto essere». L’ultima volta che hai pianto? «Io piango molto facilmente. L’altro giorno han fatto rivedere la gara delle nostre atlete di ginnastica ritmica alle Olimpiadi di Londra e quando hanno fatto l’esercizio che è valso loro il bronzo mi è venuto da pensare a quanto lavoro, quanta passione e dedizione c’è in quel gesto, dietro a un attimo solo». Ti sei mai ubriacato? «Per come la sbronza viene descritta nei film o come l’ho vista addosso a qualcuno, no. Però ricordo una sera in cui ci sono andato molto vicino, a Las Vegas. Eravamo a casa di Jimmy Vasser, mio compagno di squadra ai tempi dell’Indycar. Jimmy ha il manubrio di un Harley-Davidson con tanto di fanale, motore a scoppio, avviamento a strappo, solo che al posto del contachilometri ha l’attacco del frullatore ed è fatto apposta per fare il Margarita. Tu devi tirare la frizione, mettere la marcia, poi lasci la frizione e il frullatore comincia a girare. Mi sono ritrovato più tardi in un night mentre una lap dancer con ste due robe enormi artificiali mi ballava davanti agli occhi e ho detto: dove sono finito, in paradiso?». A proposito, credi in Dio? «Sono convinto che esista qualche cosa che noi non abbiamo ancora compreso, ma a Dio non mi sono mai rivolto perché penso che abbia problemi più grandi». Quanto ti dà fastidio chi si dopa? «Fastidio non è la parola esatta. Dispiacere. Chi si dopa ha già perso e poi c’è un problema di educazione: noi dobbiamo iniziare a spiegare ai ragazzi la bellezza del tentativo, riuscire è un piacevole valore aggiunto, ma fino a un attimo prima del taglio del traguardo se tu sei appassionato a ciò che fai te la stai godendo al pari di chi quel traguardo lo taglierà per primo. Provo dispiacere perché se quel ragazzo è arrivato fin lì vuol dire che i numeri per arrivarci ce li aveva. Io nel 2013 ho vinto un Mondiale da disintegrato, ero arrivato allo stremo delle forze, ma lo sport non è solo pura prestazione, forza e resistenza, lo sport è mille e altre cose, e me la sono giocata di strategia, mi sono detto: non è fra un anno, un giorno o un’ora che devo tenere duro, ma adesso. E, passato il momento buio, mi son ripreso». Pensi spesso a tua sorella? «Sì, anche in modo dolce, penso spesso a come mi piacerebbe che ci fossero ancora mio papà o mia sorella qui con me. Poi mi immagino a come sarebbe stata la vita con lei, magari suo marito e i nipoti a festeggiare e ridere. Ma l’uomo vuole sempre quello che non ha… Quindi chissà, magari se lei fosse viva non c’avrei nemmeno un gran rapporto, oppure fosse qui mio papà avrei timore a farlo venire a una gara per paura di vederlo sbottare e fare casino, lui era veramente uno sborone...». Un poeta ha detto: ho la nostalgia, ho la felicità, quindi ho tutto. Ti ritrovi in questa frase? «Sì». Come vorresti morire? «Contento». Sulla lapide cosa ci scriviamo? «Aveva la testa più dura del marmo di questa lapide». P.s. Dopo averlo conosciuto un po’ meglio, gli consiglio un’altra frase, che in alternativa, senza aspettare di morire, può usare come titolo della sua prossima biografia, se mai la farà, dove racconterà tutto il resto successo dopo l’incidente, Ironman compreso. Questa: Alex Zanardi, felice.