Bruno Tinti, il Fatto Quotidiano 2/10/2014, 2 ottobre 2014
CSM E CONSULTA SONO COSA LORO
L’Italia sembra afflitta da un fatale desiderio di degradazione. Ha concesso a B. di governare e oggi si entusiasma per Renzi: due individui che considerano le istituzioni loro proprietà. Magari il secondo non agisce al fine di evitare la galera come ha fatto il primo; ma che stia disfacendo le basi stesse della democrazia è un fatto. Ciò ho pensato il 30 settembre, quando ho saputo dell’elezione alla quasi unanimità (un voto ad altra persona) del vicepresidente del Csm. Ruolo delicatissimo: rappresenta il capo dello Stato e coordina e controlla l’attività del Csm. Ecco perché Renzi ha pensato bene di affidarlo a un suo fido, il sottosegretario Legnini; già tutto stabilito ben prima che il Plenum lo eleggesse formalmente come previsto dall’art. 104 Cost. I magistrati avrebbero potuto votare qualcun altro, ma non l’hanno fatto. E così hanno inaugurato il nuovo Csm: da organo di autogoverno autonomo e indipendente a servo della politica. E hanno anche accampato una scusa ridicola: non c’erano altri candidati. Non esiste una norma che preveda candidature alla carica da vicepresidente; secondo l’art. 104 Cost., ognuno dei componenti laici può essere eletto. In Plenum si vota secondo coscienza: vince chi ha riportato più voti. È ovvio che l’invadente politica padronale ha imposto a sette tra i componenti laici di dichiararsi non disponibili, sì da far eleggere l’ottavo. Ma un sussulto di dignità avrebbe dovuto indurre i magistrati a votare comunque in piena libertà; poi la palla sarebbe passata ai politici: che sette di essi dessero le dimissioni dimostrando il loro servaggio. Così invece lo hanno dimostrato i magistrati.
Del resto la lotta furibonda per l’elezione di due giudici costituzionali che sta paralizzando le Camere, la pretesa di una votazione “a pacchetto” (noi votiamo Violante se voi votate Bruno), la discutibile proposta di candidati che, pur possedendo i requisiti previsti dalla legge (professore universitario Luciano Violante e avvocato Donato Bruno), sono scelti in base alla loro appartenenza politica, è un’altra dimostrazione di questo stravolgimento delle regole costituzionali. La Corte svolge compiti che almeno i parlamentari dovrebbero conoscere; tra questi, il più importante è quello di giudice delle leggi: i giudici costituzionali devono valutare la conformità alla Costituzione delle leggi emanate dal Parlamento. Si tratta della caratteristica fondamentale della democrazia, ciò che la distingue da altre forme di governo: la Costituzione obbliga i governanti al rispetto di princìpi fondamentali; e le leggi da loro emanate non possono essere in contrasto con questi. Il che non avviene in regimi totalitari o oligarchici. Dunque i giudici costituzionali sono i guardiani dello Stato.
Il confronto con le istituzioni politiche è connaturato a questa funzione; tanto che i giudici della Corte (15) sono nominati, per un terzo, proprio dal Parlamento: è necessario un raccordo tra i princìpi costituzionali e le diverse ideologie politiche che si contrappongono in democrazia. Tuttavia non si deve scadere nella nomina di adepti che diano garanzia di far prevalere, sempre e comunque, leggi e indirizzi politici propri di questo o quel partito: una cosa è valutare, oltre alla professionalità, la formazione filosofica e ideologica del candidato, altra è pretenderne la contiguità politica.
L’attuale paralisi parlamentare è la prova dell’inesistenza di cultura giuridico-istituzionale all’interno dei partiti; che gestiscono la nomina alla carica più importante dello Stato (il giudice della legge) come bottino politico o merce di scambio. Questa situazione non è solo il prodotto di una degradata sensibilità politica; è anche resa possibile dalla istituzionalizzazione del conflitto di interessi, il vero cancro della classe politica italiana. I giudici costituzionali devono essere scelti tra i magistrati, anche a riposo, i professori ordinari di università in materie giuridiche e gli avvocati dopo venti anni d’esercizio (art. 135 Cost.). Era chiaro l’intento dei padri costituenti: garantire alla Corte personalità eminenti, di grande professionalità . Il raccordo con le esigenze della politica sarebbe stato garantito dalla nomina da parte del Parlamento, ma non dall’essere il candidato-giudice egli stesso parlamentare. Ciò non avviene per i magistrati che, quando transitano nella politica, cessano di svolgere la loro funzione.
Ma, per avvocati e professori universitari, al requisito formale si accompagna, in posizione di preminenza, la carica politica, anzi partitica. Il professore universitario o l’avvocato non è scelto per la sua professionalità e autorevolezza ma per le garanzie politiche che fornisce. E questo, ovviamente, snatura la sua funzione di giudice della legge; condiziona la sua autonomia e indipendenza; rende la Corte costituzionale meno organo di garanzia e più organo politico.
Alla fine il degrado della democrazia è inevitabile: quando l’interesse dello Stato soccombe a quello dei partiti, le istituzioni si corrompono e conservano solo la maschera di ciò che dovrebbero essere. Perseverando su questa strada, anche la Corte costituzionale condividerà il declino delle altre istituzioni dello Stato.
Bruno Tinti, il Fatto Quotidiano 2/10/2014