Ian Buruma, la Repubblica 2/10/2014, 2 ottobre 2014
CHI AMA DAVVERO LA CINA
Malgrado il lancio di gas lacrimogeni, decine di migliaia di persone hanno “occupato” le vie centrali di Hong Kong per far valere i propri diritti democratici. E molti altri potrebbero presto unirsi a loro. Il governo di Beijing aveva promesso che a partire dal 2017 i cittadini di Hong Kong avrebbero potuto eleggere liberamente il proprio leader. Ma dal momento che i candidati saranno attentamente scelti da un comitato filogovernativo, i cittadini non disporranno di una vera scelta. A candidarsi potranno essere solo persone che “amano la Cina”. Dove “amare la Cina” significa amare il Partito comunista.
La dimostrazione di sfida in atto ad Hong Kong sembra sconcertare i leader cinesi, e i motivi di tale perplessità non sono poi difficili da intuire. Dopo tutto, quando Hong Kong era una colonia di Sua Maestà non erano forse i britannici a scegliere i governatori? All’epoca nessuno aveva da ridire.
In effetti il “patto” che i residenti della colonia di Hong Kong in passato sembravano aver accettato — che prevedeva la rinuncia ad interessarsi alla politica in cambio della possibilità di perseguire la ricchezza materiale in un contesto sicuro e ordinato — non era poi così diverso dal patto stretto oggi con le classi colte della Cina. Tra i funzionari coloniali britannici e gli uomini d’affari era opinione diffusa che i cinesi non fossero realmente interessati alla politica, ma solo al denaro.
Una conoscenza anche sommaria della storia cinese dimostra quanto tale opinione fosse sbagliata — benché ad Hong Kong sia stata a lungo considerata corretta. Il fatto è che tra il dominio coloniale britannico di un tempo e quello cinese di oggi esiste una grande differenza. Pur senza mai essere stata una democrazia, Hong Kong poteva vantare una stampa relativamente libera, un governo relativamente esente da corruzione e una magistratura indipendente: tutte istituzioni che il governo democratico di Londra sosteneva.
Così, mentre per la maggior parte dei cittadini di Hong Kong l’idea di passare nel 1997 da una potenza coloniale ad un’altra non rappresentava motivo di particolare gaudio, la loro coscienza politica fu improvvisamente risvegliata dalla violenta repressione condotta nel 1989 a Piazza Tienanmen e in altre città cinesi: un massacro al quale Hong Kong reagì organizzando imponenti dimostrazioni. E che qui ogni anno continua ad essere commemorato.
Ad indurre così tante persone a manifestare a Hong Kong nel 1989 non fu solo la rabbia per la violazione di diritti umanitari: gli abitanti della colonia britannica avevano capito che sotto il futuro dominio cinese solo una reale forma di democrazia avrebbe potuto salvaguardare le istituzioni che garantivano le libertà di cui godevano. Sapevano che se non avessero avuto modo di decidere in qualche misura il modo in cui sarebbero stati governati, sarebbero finiti alla mercé di Beijing.
Dal punto di vista dei governanti comunisti cinesi le rivendicazioni democratiche degli abitanti di Hong Kong non sono che una distorta imitazione della politica occidentale o una forma di nostalgia nei confronti dell’imperialismo britannico — e in un modo o nell’altro sono espressione di un sentimento “anticinese”.
Secondo i governanti cinesi la democrazia conduce al disordine, la libertà di pensiero alla “confusione” del popolo e l’aperta critica del Partito alla disintegrazione dell’autorità.
Da questo punto di vista il Partito comunista cinese è piuttosto tradizionale. Il governo cinese è sempre stato autoritario, ma non è sempre stato corrotto quanto lo è oggi. Né la politica in passato era altrettanto priva di regole. Il fatto è che un tempo in Cina vi erano delle istituzioni — associazioni di clan, comunità religiose, gruppi d’affari e via dicendo — relativamente autonome. Il governo imperiale era forse autoritario, ma esistevano comunque delle grosse sacche di relativa indipendenza. In questo senso Hong Kong è più tradizionale del resto della Cina, ad esclusione di Taiwan.
Il fatto che il Partito Comunista sia al di sopra della legge favorisce il diffondersi di pericolosi livelli di corruzione tra i funzionari del Partito. Lo stretto controllo dell’espressione religiosa, accademica, artistica e giornalistica da parte del Partito ostacola il diffondersi di informazioni necessarie e del pensiero creativo. La mancanza di una magistratura indipendente mette a rischio lo stato di diritto. Nulla di tutto ciò agevola lo sviluppo della Cina.
Nel 1997, quando Hong Kong passò ufficialmente alla Cina, alcuni ottimisti pensavano che le maggiori libertà di Hong Kong avrebbero contribuito a riformare il resto del Paese, e che l’esempio di una burocrazia pulita e di giudici indipendenti avrebbe rafforzato in Cina lo stato di diritto. Per gli stessi motivi altri consideravano invece Hong Kong come un pericoloso cavallo di Troia che avrebbe potuto seriamente minare l’ordine comunista.
Ad oggi non vi sono prove del fatto che coloro che manifestano nel distretto centrale di Hong Kong intendano mettere a rischio, o addirittura rovesciare il governo di Beijing. Sono intenti a far valere i propri diritti, e le possibilità che riescano a farlo appaiono scarse. Xi Jinping, supremo leader cinese, non vede l’ora di dimostrare la propria intransigenza. Il suo obiettivo sembra quello di rendere Hong Kong più simile al resto della Cina, e non viceversa.
Eppure abbiamo ogni motivo di credere che la Cina avrebbe tutto da guadagnare da una traiettoria opposta. È improbabile che ciò accada di qui a breve. Ma è più facile imbattersi in persone che “amano davvero la Cina” per le strade di Hong Kong che negli esclusivi complessi riservati ai funzionari di Beijing.
(Traduzione di Marzia Porta)
Ian Buruma, la Repubblica 2/10/2014