Adriano Sofri, la Repubblica 2/10/2014, 2 ottobre 2014
LE DONNE ARMATE A CACCIA DI LIBERTÀ ECCO L’ULTIMO INCUBO DEL “CALIFFO NERO”
Le teste e i corpi decollati di tre donne combattenti curde e sette uomini, oltre a un prigioniero civile, sono state esposte dal sedicente Califfato nell’abitato di Jalablus, distretto di Kobané, nel nord della Siria. Là si combatte una battaglia strenua per un territorio cruciale, al confine con la Turchia. Kobané (o Ayn al-Arab) era stata presa nel luglio 2012 dai curdi siriani, che la popolano in maggioranza, e difesa fino a oggi dall’assalto dello Stato Islamico, rafforzato dalle armi pesanti razziate a Mosul. Le teste di donne mozzate ed esibite, invece che sbrigativamente sgozzate e buttate via, suscitano un raccapriccio e uno sdegno ulteriore, benché nemmeno questo sia davvero inedito. (La nostra cronaca nera, in Italia, negli Stati Uniti, va registrando un’emulazione paranoica in private decapitazioni di donne eseguite da uomini). I fanatici superstiziosi del Califfato temono il disonore d’essere uccisi da donne, e d’uccidere donne riconoscendo loro un rango di combattenti: ma non possono più permettersi di nasconderlo. Lo scorso 12 settembre era stata uccisa in combattimento in Kurdistan, nei pressi di Makhmour, a capo del suo commando misto di uomini e donne del Pkk, la leggendaria Avesta: che sapeva ridere dell’alone di invincibilità procurato all’Is dal terrore. «Sanno combattere da lontano con le armi pesanti, i mortai e l’artiglieria».
La notizia ormai antica che viene ferocemente alla luce a Kobané è che la principale forza resistente contro lo Stato Islamico in Siria è da sempre il “partito di unione democratica”, Pyd, curdo, con il suo braccio armato, le Ypg, “unità di protezione del popolo”, e la loro casa madre, il Pkk curdo di Turchia. E che il ruolo delle donne vi è incomparabilmente maggiore che in ogni altro attore mediorientale. Già nel momento più tragico della crisi di Mosul l’intervento dei curdi siriani e dei militanti in esilio del Pkk, che hanno la loro base sui monti Qandil, al confine tra Kurdistan iracheno e Iran, era stato decisivo per rimediare alla rotta iniziale dei peshmerga curdo-iracheni e aprire una via ai fuggiaschi yazidi dei monti Sinjar. Dopo di allora, alla frontiera del Kurdistan iracheno i peshmerga e il Pkk operano abbastanza di conserva, benché il governo di Erbil sia impensierito dal peso crescente dei curdi siriani. Ne è impensierito soprattutto il governo turco, nonostante il mutamento nei rapporti con la minoranza curda (quasi 15 milioni) e con il Pkk. Dallo scorso anno un negoziato ha portato a una tregua delle armi e a un appello alla rinuncia alla lotta armata da parte di “Apo” Ocalan, che da nemico numero uno è in predicato di diventare l’interlocutore della pacificazione. La nuova tappa aperta dall’espansione dell’Is ha reso decisivo per la coalizione promossa da Obama il contributo dei curdi in Siria e in Iraq, e contemporaneamente ha accresciuto la preoccupazione per le loro aspirazioni all’indipendenza. Così, mentre i combattenti curdi di Siria e Turchia, inferiori per numero e soprattutto per armamento, sono la prima linea della coalizione, i veri “stivali sul terreno”, restano grottescamente iscritti alla lista delle organizzazioni terroriste per Stati Uniti ed Europa, incalzati dalla Turchia. Questo intrico paradossale ha fatto sì che i curdi mal in armi siano stati lasciati a lungo soli a fronteggiare l’attacco jihadista a Kobané, mentre nel giro di due settimane quasi duecentomila curdi, vecchi donne e bambini, fuggivano travolgendo la frontiera turca.
I curdi praticano l’islam più secolare fra i loro vicini, e le donne vi tengono un posto più autorevole e valoroso, nella vita civile come nelle armi. Nel gennaio 2013, mentre erano in corso i negoziati fra governo turco e Pkk, a Parigi erano state assassinate tre donne curde di Turchia, e fra loro la leggendaria cofondatrice del Pkk, strettamente legata a Ocalan, già imprigionata e torturata in patria, Sakine Cansiz, 55 anni. Una sua amica e compagna di partito, Leyla Zana, più volte parlamentare in Turchia, incarcerata per dieci anni e insignita del premio Sakharov, dichiarò allora che le donne curde «in passato dovevano gridare per esistere come esseri umani, ora gridano per proclamare le proprie idee e ideali. L’opinione corrente era: se sei uomo, vali; se sei donna, non vali. Man mano che si raddrizzano le cose, non bisognerà che gli uomini siano resi schiavi mentre le donne si liberano. Andremo avanti spalla a spalla».
È questo a rendere la partecipazione armata di donne curde, accanto agli uomini o in reparti solo femminili, un complemento del desiderio di libertà, parità e affrancamento dal patriarcalismo. Nella bolgia siriana donne hanno preso un posto pressoché in tutti gli schieramenti: dalle “leonesse” di Assad alle immigrate dall’Europa che vengono a sposare il loro jihadista — caso, questo, della più triste soggezione e sottomissione. Anche nella società curda, compreso il Kurdistan iracheno, il più ricco di autonomia e risorse, una discriminazione patriarcale continua a esistere, ed è il punto più debole di quel mondo effervescente. Nei ristoranti tradizionali di Erbil c’è una parte riservata alle donne e alle famiglie e una agli uomini e, come dovunque, i comportamenti legati alle predilezioni sessuali sono i più renitenti al cambiamento pubblico. La capitale concorrente che è Suleimania vanta una vita culturale e artistica molto più vivace e abitudini spregiudicate, e tuttavia là la gran donna che è Hero Talabani mi confessò di essersi resa conto solo molto tardi dell’esistenza diffusa anche in Kurdistan dell’orrenda pratica delle mutilazioni genitali femminili. Giorni fa a Erbil è stato presentato il primo rapporto dell’Unicef sulle mutilazioni genitali femminili nel Kurdistan iracheno. Il rapporto, realizzato fra gli altri dall’indiana Mary Pereira Mendes e Marzio Babille dell’Unicef consultando 873 famiglie tra Erbil e Suleimania, documenta che la proporzione di MGF è tanto più alta quanto più alta è l’età, e dunque la pratica, benché ancora gravemente diffusa, è in declino. Frances Guy, rappresentante delle donne dell’Onu in Iraq, ha esortato: «Mi sono ispirata alle donne del Sudan, dell’Etiopia, dello Yemen e del Kurdistan che si battono valorosamente per proteggere le loro figlie da questo crimine abominevole. In Kurdistan abbiamo la possibilità di metter fine a questa pratica entro una generazione. Facciamolo!».
Tenuta mentre a qualche chilometro infuriava la guerra con i tagliatori di teste e stupratori, in un paese che aveva improvvisamente aggiunto alla sua moltitudine di profughi siriani la nuova moltitudine di profughi cristiani e yazidi, la solenne presentazione del rapporto Unicef è stata la miglior illustrazione della doppia trincea sulla quale si combatte oggi nel medio oriente: quella della libertà e della democrazia, e quella del suo nocciolo primo, la condizione della donna.
Adriano Sofri, la Repubblica 2/10/2014