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 2014  settembre 27 Sabato calendario

MEGA CITT


Vieni, vieni in città, che stai a fare in campagna, se tu vuoi farti una vita devi venire in città», cantava Giorgio Gaber negli anni del boom italiano. Se oggi ci guardiamo intorno, sembra che tutti stiano seguendo il suo consiglio. Nell’anno 1800, appena il 5 per cento della popolazione mondiale viveva in città. Nel 2014, per la prima volta nella storia dell’umanità più gente vive in città che in campagna: per l’esattezza il 55 per cento degli abitanti del pianeta. La tendenza appare in aumento, e siccome sempre più gente vuole “farsi una vita in città”, per dirla con Gaber, le città diventano sempre più grandi. All’inizio del diciannovesimo secolo, una sola città al mondo aveva più di un milione di abitanti: Pechino. Ora ci sono 450 città con dimensioni simili, in cui abita quasi un quarto della popolazione mondiale. Molte di queste non hanno semplicemente più di un milione di abitanti, bensì molti milioni: sono così grandi da non essere definibili, come un tempo, con l’etichetta di metropoli. Per loro viene coniato un nuovo termine: mega-città. Quarant’anni or sono soltanto Tokyo e New York appartenevano alla categoria, poi nel 1975 si è aggiunta Città del Messico: gigantesche distese urbane, formicai umani a perdita d’occhio, agglomerati di case, fabbriche, strade e, inevitabilmente, di ghetti, baraccopoli, slums, dove trovano posto i nuovi arrivati, gli “ultimi” in ogni senso della parola. Oggi una trentina di città hanno più di 10 milioni di abitanti. Nella più grande, Tokyo, vivono 37 milioni di persone. Seguono Giacarta con 30 milioni, Delhi con 24, Seul con 23, Manila con 22. Gli urbanisti predicono che ce ne saranno altre dieci entro la fine del decennio, altre venti entro il 2030.
Per un secolo e mezzo, dall’inizio della rivoluzione industriale in poi, questa continua, progressiva ascesa delle città è stata vista come un fenomeno positivo e l’opinione dominante è che continua a esserlo: Ed Glaeser, stimato economista dell’università di Harvard, afferma che le città sono il luogo in cui si consuma il progresso, dove si trova lavoro e cresce la conoscenza, dove si moltiplicano le opportunità. Un luogo che la globalizzazione e la rivoluzione digitale hanno reso «il nido dell’intelletto». Le riforme, le mode, i cambiamenti nel costume e nella morale nascono nelle città. Ed è dalle città che partono ribellioni e svolte sociali. Così come è la norma praticamente ovunque, dagli Stati Uniti all’India passando per ogni Paese europeo, che le città votino più a sinistra e le campagne siano più conservatrici e tradizionaliste.
Ma non tutti plaudono all’avvento delle mega-città. Joel Kotkin, sociologo della Chapman University, direttore del centre for Demography and Policy, le mette sotto accusa in un libro che sta facendo molto discutere in America: The problem with mega-cities. Le grandi città hanno avuto una valenza positiva a lungo, afferma lo studioso, ma questo non vuol dire che debbano averla per sempre. Anche perché, quando si parla di megalopoli, c’è spesso un equivoco. «Quando architetti e urbanisti parlano entusiasticamente delle città del futuro, ci offrono immagini scintillanti di Londra, New York, Singapore. In realtà il futuro per la maggior parte delle mega città del mondo avrà piuttosto l’aspetto di posti come Lagos o Calcutta: sporchi, poveri, infestati di malattie e disastrosi dal punto di vista ambientale». Nel suo libro, Kotkin riconosce polemicamente che città come Karachi, Manila o Giacarta offrano grandi opportunità di sviluppo alle aziende multinazionali e rappresentino un tesoro di stimoli affascinanti per giornalisti e accademici. Ma non ci sta a «celebrare la miseria» come a suo parere fanno dotti saggi del tipo di quello pubblicato qualche mese or sono dalla rivista Foreign Policy sotto il titolo Elogio degli slum.
Il sociologo americano fa notare innanzi tutto che grande non è necessariamente più bello o meglio che piccolo, relativamente a una città. «Delle circa 30 mega città odierne soltanto mezza dozzina figurano tra le 20 più importanti città del mondo. Si tratta delle solite occidentali, capitali stabilizzate da secoli come Tokyo, New York, Londra, o di quelle situate in Estremo Oriente nelle zone di grande boom economico, come Pechino, Shangai, Seul. Ma la maggioranza delle nuove megacittà cresciute selvaggiamente in Africa e in Asia non risultano particolarmente attraenti per gli investitori stranieri. Non hanno niente in comune con Singapore, Hong Kong e Dubai. La loro espansione non è il risultato di una crescita economica ma dell’arrivo di masse impoverite e disperate dalle campagne circostanti». Si spostano in città perché non hanno altro posto dove andare. Per una tenue speranza che quasi sempre viene delusa. Diventano prigionieri di slum senza uscita.
All’interno delle nuove mega-città, ammette Kotkin, «esistono quartieri Vip, zone previlegiate, dove ci sono energia elettrica, strutture sanitarie, acqua potabile». Ma subito al di fuori di queste enclave, ammonisce, «perfino la classe media vive in condizioni inumane, abitazioni congestionate, strade dissestate, prive di energia e di acqua». In proposito cita l’esempio della gigantesca baraccopoli che cresce attorno a Dacca, la capitale del Bangladesh, aumentando di mezzo milione di persone l’anno: «Qualcuno crede che questi migranti interni stiano meglio di chi li ha preceduti nel viaggio dalle campagne alle città nelle generazioni precedenti, solo perché hanno un telefonino e viaggiano in moto. Ma le condizioni fisiche in cui vivono sono peggiori di quelle che esistevano a New York nell’era della Grande Depressione. Due terzi della rete fognaria di Dacca, usate da 15 milioni di persone, è inquinata e costituisce un pericolo per l’igiene pubblica. La vita nelle mega-città è una minaccia al nostro sistema immunitario».
Anziché offrire un’alternativa a fame e povertà, a suo giudizio il mondo delle mega-città porta a una crescita della diseguaglianza: altro tema caro allo studioso americano, il cui ultimo libro. The new class conflict, dipinge un pianeta diviso tra una élite di oligarchi e professioni prestigiose da un lato, una massa di poveri e classe media impoverita dall’altro. C’è una soluzione a questo modello di sviluppo? «Si, c’è», risponde Kotkin. «Bisogna puntare sulle città diffuse, su una ragnatela sempre più grande di piccole e medie città, cittadine e villaggi, che mantengano una crescita a misura d’uomo. Ed è possibile farlo grazie ai progressi che l’agricoltura, i trasporti, le comunicazioni digitali, hanno fatto negli ultimi dieci anni». In India lo spostamento verso le città ha rallentato e il neo premier Narendra Modi vuole rallentarlo ancora di più: «Un fenomeno che ha già un nome, rurbanization (da “rural urbanization”, urbanizzazione rurale). Suona come un ossimoro, invece può funzionare. Agglomerati che abbiano il cuore di un villaggio e offrano le opportunità di una metropoli». Copiare Londra o Tokyo senza avere gli stessi mezzi è una ricetta disastrosa per i Paesi in via di sviluppo e le economie emergenti, conclude il professore, immaginando un domani di città-giardino, come risposta alle mega-città alla Blade Runner.