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 2014  settembre 27 Sabato calendario

LA PASSIONE DI MARYAM E LA RIVOLUZIONE PIÙ SCOMODA


«Ho dovuto affrontare un nuovo tipo di bucket challenge», scherza Maryam al-Khawaja, ripensando ai secchi che, a causa della mancanza di acqua corrente, doveva portare ogni giorno nella sua cella nella prigione femminile di Isa Town, nel piccolo regno del Bahrein. Maryam è tornata in libertà provvisoria il 17 settembre, ma non può lasciare il Paese e dovrà rispondere di un’accusa grave quanto ridicola: l’aggressione a un poliziotto al suo arrivo all’aeroporto di Manama, lo scorso 30 agosto.
Dopo quattro anni di esilio volontario, la ventisettenne attivista si era decisa a rientrare in patria con la speranza di incontrare suo padre, il leader storico del movimento democratico del Paese del Golfo Abdulhadi al-Khawaja, che si trova in prigione, in pessime condizioni di salute, per scontare una condanna all’ergastolo.
Alcune settimane prima del suo viaggio, nell’ufficio del Centro danese per i diritti umani di Copenhagen, Maryam parlando con pagina99 aveva dipinto un quadro molto deprimente di quella che chiama «una rivoluzione scomoda», portata avanti dalla maggioranza sciita del Paese (il 70% della popolazione) discriminata dalla famiglia regnante sunnita degli al-Khalifa.
«La rivoluzione democratica non conviene né alle potenze sunnite del Golfo, né all’occidente», spiega Maryam. «Il Bahrein ospita la Quinta Flotta degli Stati Uniti. E di recente il Principe Andrea di Gran Bretagna è andato a Manama per vendere aerei da guerra al nostro re. Il commercio di armi, gli accordi economici e le operazioni di sicurezza vanno avanti nonostante il governo continui ad accanirsi contro il suo popolo in lotta per il cambiamento e la democrazia». Vista la partecipazione dell’aeronautica del Bahrein ai primi bombardamenti in Siria nel quadro dell’escalation militare contro l’Isis, difficile pensare che la comunità internazionale voglia alzare ora la voce.
Maryam e i suoi familiari hanno tutti la cittadinanza danese, ottenuta dopo la concessione dell’asilo politico nel 1990. Tornati in Bahrein nel 1999, dopo che re Hamad si era impegnato a realizzare alcune riforme politiche, gli al-Khawaja hanno ripreso la loro militanza, ricoprendo poi un ruolo di primo piano nel movimento democratico che nel febbraio 2011 ha portato un quarto della popolazione in strada (150 mila su un totale di 600 mila abitanti). Ma la situazione è subito degenerata. L’alba del 17 febbraio – che a Manama da allora chiamano “il giovedì di sangue” – le forze dell’ordine sgomberano piazza delle Perle, cuore della protesta, uccidendo quattro persone. Il 14 marzo, in soccorso al regime in difficoltà arrivano rinforzi militari dall’Arabia Saudita e dagli Emirati Arabi Uniti. L’indomani re Hamad dichiara lo stato d’emergenza per tre mesi. E le porte delle prigioni si aprono per molti militanti. Secondo l’ong americana Human Rights First ci sono ancora oggi 3 mila prigionieri politici nel Paese.
Il padre di Maryam è la figura più carismatica del gruppo ribattezzato da Amnesty International Bahrain 13, tutti condannati all’ergastolo con l’accusa di aver provato a rovesciare la monarchia, spionaggio e collaborazione con «attori esterni che rappresentano una minaccia per il Paese». Formula dietro alla quale si legge l’ossessione che i manifestanti sciiti possano diventare una pedina di Teheran.
Abdulhadi soffre di diverse malattie croniche, ma non viene curato. Maryam e sua sorella Zainab – finita lei stessa più volte in prigione – chiedono da tempo che venga concessa l’estradizione del padre in Danimarca, in modo da garantirgli le cure di cui ha bisogno. Non c’è stato nulla da fare. In carcere inoltre Abdulhadi ha subito delle torture, certificate dalla Commissione d’inchiesta indipendente del Bahrein. E dopo un primo sciopero della fame durato 110 giorni nel 2012, il 25 agosto di quest’anno ha smesso di nuovo di mangiare a tempo indeterminato. Viste le sue già precarie condizioni di salute, i medici hanno avvertito che il suo cuore potrebbe fermarsi da un momento all’altro. Da qui la decisione di Maryam di rientrare a casa.
Finora le figlie di Abdulhadi si erano divise i compiti lasciati dal padre. Mentre la maggiore Zainab guidava i manifestanti sul campo, la piccola Maryam parlava con le organizzazioni internazionali e i governi stranieri. Negli ultimi tre anni Maryam ha visitato dignitari, diplomatici, filantropi e università per raccontare i fatti, i numeri e lo stallo prolungato della situazione in Bahrein. E ha chiesto più volte ai leader degli Usa e dell’Unione europea di esercitare una pressione economica e politica contro gli abusi commessi dalle autorità. Senza successo.
«I parlamentari europei sono tra i più ricettivi – racconta – ma le risoluzioni che passano a Strasburgo non hanno grande influenza sui governi e sulla loro politica estera. Quando l’Unione europea discute un accordo di libero commercio con i Paesi del Golfo, dovrebbe invece subordinare l’intesa al rispetto dei diritti umani».
Negli anni Maryam è diventata sempre più pessimista per via del mancato intervento della comunità internazionale. «Sono stata lontana per anni, ma a questo punto penso che la diplomazia serva a poco. La vera battaglia va combattuta nelle strade».
Sebbene sia stato indebolito dall’indifferenza politica e mediatica del resto del mondo, il movimento pro-democrazia in Bahrein non si è fermato. Le manifestazioni vanno avanti con cadenza quasi quotidiana, anche se la protesta si è spostata dalla capitale ai villaggi sciiti circostanti.
«Ogni anno il governo diventa più efficiente nel controllo della protesta» osserva Maryam. «E da tempo stiamo cercando di far capire al cosiddetto mondo libero che, chiudendo un occhio, stanno favorendo una possibile deriva violenta, perché la gente è sempre più frustrata. I cittadini del Bahrein hanno visto che in Libia i rivoltosi usavano le armi e hanno ottenuto l’appoggio della Nato, in Siria usano le armi e il problema viene discusso a livello internazionale. Il Bahrein invece viene quasi del tutto ignorato, e quindi la gente sta cominciando a pensare che dovrebbe fare come i siriani e i libici per farsi riconoscere a livello internazionale, forse soltanto così i governi si interesseranno di quello che accade da noi».
Non la pensa così comunque Maryam al-Khawaja, convinta che lo strumento più potente sia ancora la disobbedienza civile. E non tanto per idealismo, ma perché «non bisogna combattere il nemico con le sue armi, ma con le tue armi più forti. E di fronte ai carri armati noi dobbiamo conservare il coraggio e la forza di disobbedire».

(traduzione di Andrea Sparacino)