Francesco Caldarola, pagina99 27/9/2014, 27 settembre 2014
UNA VITA SENZA FRENI PER IL MATTATORE DEI GIORNALI
Se nella stessa vita sei riuscito a essere al tempo stesso pugile, ballerino, giornalista, gangster a Marsiglia, militare e poi deportato, scrittore, attore di b movies, e mille altre cose ancora, evidentemente un po’ di talento devi averlo. Gian Carlo Fusco, che tutte queste maschere le ha indossate (più o meno) davvero, di talento non ne aveva un po’: ne aveva tanto. Solo che, come succede a chi può permettersi di sprecarlo, l’ha regalato:
alle entreneuse dei night di Milano, ai direttori dei giornali che chiudevano un occhio in cambio dei suoi affreschi su carta, a produttori mediocri, ai bar dove tirava tardi, a chi ha conosciuto e a chi lo leggerà anche ora, a trent’anni dalla morte.
Parlando di Fusco prima di tutto viene il personaggio: matto, cialtrone, sbruffone, geniale. Spezzino, viareggino, milanese, romano. Cosmopolita passato per la guerra d’Albania, per Marsiglia, per il mondo che aveva in testa, Gli esordi, già, non sono nettissimi: c’è il fascismo, gli stenti, lui si trova al fronte nel genio telegrafisti, esperienza che lo forma e che diventerà fonte di aneddoti infiniti. Perché Gian Carlo Fusco è soprattutto questo: storie, episodi, quasi fiabe, che lui racconta sempre e dovunque, nei bar, in redazione, nei salotti dei ricchi dove lo invitano e lo fanno parlare per ore, per la strada, alle donne. Fusco è le sue narrazioni, «inventava mentre viveva: era lui stesso il suo romanzo, era un romanzo vivente», come si legge nel ritratto più completo mai dedicategli, L’incantatore, di Dario Biagi, un libro fuori catalogo che è rigoroso ma che sa rendergli il giusto omaggio.
È appassionato di boxe: racconta di essere stato un giovane pugile promettente, ma forse è vero o forse no. Di sicuro c’è che si fa distruggere tutti i denti (pare) in un incontro e rimarrà con i soli canini parlando sempre con una mano davanti alla bocca. Almeno sino a quando arriverà a Milano al Giorno, dove Camilla Cederna e i suoi colleghi lo convinceranno – con non pochi sforzi – a farsi fare una dentiera che lui dimenticherà e getterà ovunque: sulle scrivanie, una volta sul tetto di una macchina, e persino dentro un bicchiere di whiskey sul tavolino di Francis Turatello, che gli dirà: «hai fegato, ragazzo».
A Viareggio litiga con la famiglia ma è già una leggenda della passeggiata: fa il barbone, campa di espedienti, si imbottisce di simpamina, si arrangia. Una volta, per comprarsi da mangiare, smonta e vende le persiane di casa dei suoi genitori mentre dormono. Ed è proprio a Viareggio che l’amico Manlio Cancogni, persona perbene e imbarazzato dal ricorrere nei suoi pezzi continuamente ad aneddoti sentiti da lui, lo incoraggia e gli dice: «ora lo dico in redazione, il prossimo lo scrivi tu».
Così, dopo pochi mesi di articoli strabilianti, anche per il pregiatissimo Mondo, Fusco viene chiamato in pianta stabile a Milano, all’Europeo di Benedetti, e da lì parte tutto. In breve tempo è il mattatore, il re o forse il giullare: scrive di ogni cosa, di nera, di giudiziaria, ma soprattutto di colore, di costume, nessuno come lui. Racconta le notti milanesi, le vacanze degli italiani, il boom economico, il Festival di Venezia. Chiaramente a modo suo: fa casini, non si presenta, manda note spese colossali. Una volta, ancora in pigiama, insegne un treno già in movimento per consegnare in extremis un pezzo e sta in giro tutta la notte. Ecco, la notte, quello è il suo regno: ha già mandato a monte un matrimonio (con una figlia), ha un’altra relazione sempre burrascosa (pestaggi vicendevoli, riconciliazioni, lei che lo mena col mattarello per l’ennesimo tradimento e lui che «dai, topino, non fare così! »). Ma la sua penna è unica, inarrivabile: «il giornalista – dice – è un violinista che suona in un bordello». Passa al Giorno appena fondato perché il neo direttore Baldacci si invaghisce professionalmente di lui, se lo porta dietro come un talismano, perché è un guitto, un dritto, uno che sa stare al mondo. Gli consegna anche una rubrica quotidiana, “la Colonna”, dove può scrivere quello che vuole. E lui lo fa, gira l’Italia, diventa una firma e anche un personaggio: i capelli ricci scarmigliati, gli occhi chiari, la figura svelta, quel vizio del bicchiere che rispecchia la sua inquietudine (beveva così tanta grappa che il rappresentante della celebre Nardini si presentò sotto casa sua per consegnare l’ennesima cassa chiedendo ai vicini «dov’è il bar Fusco?»).
È un soggetto, un dispari, nemmeno si lava troppo, lo conoscono tutti, lo invitano tutti solo per sentirlo parlare: ha aneddoti formidabili, una dialettica imbattibile, dice di essere stato a Marsiglia con i veri malavitosi, è amico dei pugili che considera colleghi, gira con in tasca un coltello a serramanico e una piccola pistola di cui si serve – in maniera innocua, anche se qualche revolverata la tira, per fortuna sua mai a segno – per fare il gradasso. Piomba in redazione in piena notte e ammalia i giovani colleghi di turno con racconti pazzeschi, li trascina nei night, con le donne, alle feste. E soprattutto scrive, scrive da dio: il grande Tommaso Besozzi, il principe degli inviati, lo considera un buffone, Bocca – così lontano dal quel modello umano – poco di meno, Brera lo guarda storto. Ma lui si dice comunista peggio: stalinista, nonostante sia stato espulso dal partito e tira dritto. Si accompagna a Rick Rolando, un armadio in doppio petto gessato, mezzo cantante francese mezzo non si sa che cosa, e vanno in giro ovunque. La festa va avanti sino a quando Baldacci non è costretto a dimettersi su pressione di Mattei, l’editore, e lui si ritrova solo. Direttore diventa Italo Pietra, che appende sulla porta un cartello «una mela al giorno leva il medico di torno». Troppo rigoroso, troppo lontano per capirlo. Una volta glielo dice in faccia: «questo giornale ha un centravanti di sfondamento che si chiama Giorgio Bocca e un abatino che si chiama Alberto Arbasino». Tradotto: non c’è più posto, non è più il cocco del direttore, non può più fare quello che vuole, anche se lui – ovviamente – se ne fotte e continua a farlo. Ma marca male e da lì a poco si trasferisce a Roma, dove, abbastanza in fretta, arriva il crepuscolo.
Si butta nel cinema, collabora a sceneggiature, dal blasone del Giorno scende a riviste più popolari, borderline col pomo soft. Certo, i primi anni non sono male: è amico di personaggi come Carmelo Bene, Andrea Camilleri e Maria Callas, frequenta il Rosati di Piazza del Popolo, ma per i più ormai sta cominciando a buttarsi via, persino per Bianciardi è “un magnifico cacciaballe”. Firma i primi lavori di Tinto Brass, ma scivola sempre più giù: accetta una parte in Ku-fu? Dalla Sicilia con furore con Franco Franchi, per finire con due battute due in Paulo Roberto Cotechiño centravanti di sfondamento, pellicole che oggi forse va di moda definire stracult ma che sono un’altra cosa rispetto a una carriera da principe della penna.
Di lui ora si ricordano libri come Duri A Marsiglia, ma per capirlo bisognerebbe recuperarsi gli scritti contenuti ne Le rose del ventennio dove si può leggere il Fusco più in forma.
Al funerale ufficiale, nell’84, dopo un brutto tumore al cervello, vanno in pochi. La rivincita una settimana dopo, a Forte dei Marmi quando alla cerimonia privata arriva tutto il circo che lo ha accompagnato in vita, con le corone di fiori, la folla, le amanti, come nelle canzoni di De André. L’epitaffio se l’era scritto involontariamente da solo il giorno prima dell’ultima crisi, quando a un’amica confidò: «Dio mira giusto. Se non mi colpiva alla testa non sarei mai morto».