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 2014  ottobre 01 Mercoledì calendario

ORFANI, LE ALTRE VITTIME DI EBOLA

«L’auto si ferma, fa scendere il piccolo e lo lascia lì. Non ci mettiamo molto a capire che non è malato. Non lui. Lo sono stati i suoi genitori, uccisi da ebola. La comunità, però, li considera “infetti” e abbandona sulla nostra porta. Quanto spesso accade? Ogni giorno». Il dottor Roberto Scaini, impegnato nel centro di isolamento di Monrovia di Medici senza frontiere (Msf) ha dovuto imparare a confrontarsi anche con le “altre vittime” del virus. Chi, cioè, non è stato contagiato ma ha avuto ugualmente la vita sconvolta dall’epidemia. Dei troppi “danni collaterali” prodotti da ebola, gli orfani sono quello più tragico. Nessuno conosce con esattezza il loro numero. Secondo le stime preliminari di Unicef, sono almeno 3.700, i piccoli rimasti senza uno o entrambi genitori in Guinea Conakry, Liberia e Sierra Leone dallo scoppio della malattia. Tutto questo mentre si apre un nuovo, inquietante, “fronte”. Con ebola che “sbarca” negli Stati Uniti. Si tratta di un uomo arrivato dalla Liberia in Texas già contagiato dal virus.

«Molti bambini si sentono indesiderati e abbandonati», dice Manuel Fontaine, direttore di Unicef per l’Africa occidentale e centrale. «In molte co- munità ebola sta diventando più forte dei legami familiari», aggiunge. Un’emergenza nell’emergenza. Unicef teme un raddoppio degli orfani entro metà ottobre. I piccoli abbandonati vengono portati in centri provvisori nell’attesa di trovare un familiare disponibile a riaccoglierli. Qualche volta – spiegano ad Avveniregli operatori Unicef – ci vogliono lunghe ricerche. È il caso di Rose, 5 anni, e Francis, 13, la cui zia è stata ritrovata solo grazie alla determinazione dei responsabili dell’Interim Care Centre di Kailahun, in Sierra Leone. Per questo, si sta cercando di costruire un network per rintracciare le famiglie dei “bimbi perduti”. Poi viene l’azione di sensibilizzazione. Si inventano i modi più ingegnosi: rapper e fumettisti hanno messo a disposizione la loro arte per spiegare alla gente quando c’è rischio. Spesso la paura fa respingere, oltre agli orfani, anche i guariti. «Ebola ha un tasso di mortalità del 70%. Non c’è cura ma con la reidratazione e alimenazione si aumentano le possibilità di sopravvivenza del 10, 15%», spiega Scaini ad Avvenire. Dei 3.300 ricoverati nelle sei strutture Msf, 650 sono guariti, 140 nel centro di Monrovia. «Non è poco. Ma ci vogliono risorse», dice Scaini. Salomon un posto l’ha trovato. Questo ventenne aveva giurato che se avesse sconfitto il virus avrebbe utilizzato la patente appena presa per “dare una mano”.

E così è stato. Ora Salomon fa l’autista di Msf. Un autista “particolare”: riaccompagna i superstiti nei villaggi di origine. Mentre questi mostrano con orgoglio il loro “certificato di guarigione”, Salomon spiega alla comunità che non corrono più alcun rischio di infezione: in caso contrario, i reduci verranno emarginati e condannati a una nuova, lenta morte in vita. Anche la sensibilizzazione, però, richiede mezzi. E questi scarseggiano.

«Spesso siamo costretti a respingere perfino i bimbi. Uno è tornato da noi tre volte. Alla fine, abbiamo aggiunto dei letti di fortuna. Ripeteva solo: “Grazie”. È morto poco dopo. Quando qualcuno ce la fa però è un’emozione unica». Patrick è stato il primo minore a superare ebola a Monrovia. «Quando passavo gli davo il cinque con i guantoni gialli – conclude Scaini –. Appena è uscito dall’isolamento, mi ha detto: “Ora puoi toccarmi la mano!”».