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 2014  settembre 30 Martedì calendario

CON GLI OMBRELLI CONTRO IL GOLIA CINESE

[3 articoli] –
Hong Kong è paralizzata e la protesta non fa che crescere, richiamando di ora in ora nuovi sostenitori che si oppongono al sistema elettorale imposto da Pechino e chiedono un suffragio «libero e universale».
Decine di migliaia di manifestanti hanno bloccato le principali strade dell’ex colonia britannica e la notte di guerriglia combattuta dalla polizia con gas lacrimogeni, spray al pepe e manganelli non è bastata a disperdere la folla. Ieri duecento linee di autobus sono state bloccate o deviate, il traffico interrotto, la metropolitana chiusa, molte scuole hanno sospeso le lezioni, alcune banche e uffici non hanno aperto.
«Vogliamo solo la democrazia, staremo qui finché il governo non ci darà risposte», dicono due giovanissimi volontari che distribuiscono acqua, frutta e biscotti ai partecipanti alla protesta. In molti hanno deciso di scendere in piazza dopo che la polizia ha iniziato a sparare lacrimogeni e pallottole di gomma contro le manifestazioni pacifiche. «È incredibile quante persone sono uscite… qui a Mongkok ci sono tutti: tanto i camionisti che i gestori dei ristoranti dove vanno a mangiare, i meccanici, la classe media. Insomma, tutti: la violenza della polizia ha fatto infuriare chi non avrebbe mai partecipato a una manifestazione», dice Cheung Kit, manifestante. «Tutti dicono la stessa cosa: questi comportamenti violenti non corrispondono a Hong Kong. Questa non può essere la nostra Hong Kong», aggiunge, e porta la figlia di sei anni a passeggiare per le strade per «una lezione di educazione civica».
E mentre la Cina intima di non interferire negli affari interni agli Stati Uniti - che hanno chiesto «moderazione» e, con il portavoce della Casa Bianca hanno espresso «solidarietà alla popolazione» - si moltiplicano le manifestazioni di sostegno in tutto il mondo. Ieri perfino i cardinali cattolici sono scesi in piazza e ora Pechino si trova ad affrontare una delle sfide politiche più impegnative da piazza Tiananmen, 25 anni fa.
In un estremo tentativo di sedare gli animi, l’esecutivo ha annunciato il ritiro degli agenti in assetto anti-sommossa dalle strade, ma è stato costretto a cancellare le celebrazioni in programma per domani, giornata di festa nazionale.
E mentre rimbalzano su tutti i giornali le immagini del rispetto che i dimostranti mostrano per le regole – raccolgono la spazzatura e la separano per il riciclaggio, non calpestano le aiuole, non saccheggiano negozi, rompono vetrine o bruciano auto e cassonetti – la protesta che attraversa tutti gli strati sociali della penisola da ieri ha un nome e un simbolo, adottato immediatamente dai manifestanti e rimbalzato online su tutti i social: «The Umbrella Revolution», la rivoluzione dell’ombrello. Gli ombrelli, ottimi per proteggersi dal sole cocente dell’estate di Hong Kong (o dalle frequenti piogge) sono diventati l’accessorio indispensabile dei ragazzi che stanno bloccando il centro per proteggersi dai lacrimogeni e dagli spray urticanti e simbolo stesso del movimento di disobbedienza democratica.
La stampa locale di ieri era piena delle immagini sconvolgenti dei dimostranti con gli occhialini da piscina e il cellophane sul viso per proteggersi dai gas, e della polizia in tenuta anti-sommossa. «Apple Daily», il quotidiano di Jimmy Lai, l’uomo d’affari che più di tutti ha sostenuto la battaglia pro-democrazia di Hong Kong, era tutto esaurito dalle sette di mattina, con in prima pagina i fumi dei lacrimogeni e un titolo a caratteri cubitali: “Ingiustificabile». Il «Wen Hui Pao», invece, il principale quotidiano pro-Pechino della città, sceglie la linea «neutra» e titola «Caos a Hong Kong». Ma è quasi l’unico: i moderati non concepiscono che questa pacifica città con pacifici dimostranti sia divenuta per una notte un campo di battaglia.
Ilaria Maria Sala, La Stampa 30/9/2014


FOLLA IN PIAZZA E STRADE BLOCCATE? PER PECHINO “È LA FESTA NAZIONALE” –
Davanti agli avvenimenti imprevisti i media cinesi, e il governo che rappresentano, hanno sempre un inizio lento, alla ricerca della linea ufficiale da seguire. Così, la copertura delle manifestazioni a Hong Kong dagli organi di informazione in Cina è surreale.
Non si può certo ammettere pubblicamente che Hong Kong stia lottando per il suffragio universale e tanto meno che vorrebbe «democrazia». È inammissibile anche mostrare che la regione amministrata da Pechino osi lanciare una sfida così aperta alle autorità locali e nazionali. Così i media sono «costretti» a soluzioni alternative.
In televisione, per esempio, l’annunciatrice, con un completo arancione davanti alle immagini di una folla che cammina, domenica ha detto sorridendo che «la gente di Hong Kong è uscita per le strade per celebrare la giornata nazionale del 1° ottobre», con una scritta in sovrimpressione che diceva che «Hong Kong sostiene il programma di riforme elettorali annunciato dal governo». Un universo parallelo, la cui finzione può essere mantenuta in vita solo con una strategia censoria raddoppiata: per due giorni infatti gli utilizzatori cinesi di Instagram si sono trovati nell’incapacità di accedere ai loro account, dato che il servizio ora è inaccessibile come lo sono Twitter, Facebook e YouTube, fra gli altri.
Ma non basta: una direttiva governativa inviata ai provider di Internet intima di eliminare dalla rete tutto quello che riguarda Hong Kong.
Chi ha un abbonamento a un Vpn (network privati per «scavalcare» il muro di censura, tecnicamente illegali in Cina ma piuttosto diffusi) denuncia invece che in questi giorni la connessione sia molto lenta e intermittente.
Il «Quotidiano del Popolo» in un editoriale, ha dato per ora le prime indicazioni su come il governo centrale intenda affrontare le proteste: di nuovo, accusa un «piccolo gruppo di estremisti e forze straniere ostili» (fra cui mette anche la stampa estera e Twitter) di aver plagiato gli studenti. Ovviamente neanche una riga sulla massa di persone che ieri era in piazza per difendere non solo la democrazia, ma lo stile di vita stesso di Hong Kong.
Il problema, per Pechino, si fa urgente: domani, festa nazionale, coincide con una settimana di vacanza che milioni di cinesi passano abitualmente a Hong Kong. E se chiudere la frontiera (tutt’ora esistente) è impensabile, l’idea di mostrare ai propri cittadini migliaia di dimostranti pacifici che chiedono libertà e democrazia è altrettanto inquietante. Per questo, ora che la violenza si è rivelata controproducente, si prova con le maniere più dolci cercando di convincere «Occupy Central» a tornare a casa.
i. m. s., La Stampa 30/9/2014


“È COME TRA RUSSIA E UCRAINA MA LE SANZIONI SAREBBERO INUTILI” – [Intervista a Ian Bremmer] –
Ian Bremmer non vede molte vie d’uscita positive: «È come l’Ucraina, con la differenza che Hong Kong fa parte del territorio cinese. Da questa situazione non può venire fuori nulla di buono, perché Pechino non è disposta a compromessi. L’unico dubbio è se le forze dell’ordine locali basteranno a fermare la protesta, oppure se il governo centrale manderà l’esercito».
Bremmer è il presidente dell’Eurasia Group, una compagnia che fa analisi dei political risk a livello globale, e ha visitato di recente la regione.
Perché la protesta di Hong Kong è simile a quella ucraina?
«La Russia non consentirà mai che l’Ucraina abbandoni completamente la sua sfera di influenza, si tratta solo di stabilire le condizioni del rapporto. A maggior ragione Pechino non consentirà mai a Hong Kong di andare per la sua strada, perché questo comprometterebbe la stabilità nazionale».
La protesta non ha la forza di far ascoltare la sua richiesta di autonomia?
«Quando ci fu il passaggio dalla Gran Bretagna, Hong Kong valeva il 15% dell’economia cinese, ora solo il 2,5%. Non sono numeri abbastanza significativi da spingere Pechino al compromesso».
Perché?
«Il presidente Xi è un riformatore, ma sul piano economico: vuole che il Paese si evolva, crescendo sulla base di un modello più simile a quello delle economie liberali. Sul piano politico, però, è un accentratore, proprio perché per riuscire nel suo progetto non può permettersi defezioni. Dunque il danno politico di una Hong Kong libera di andare per la sua strada democratica è enormemente più grande dei vantaggi economici che può offrire. Ormai, se uno vuole investire in Cina, può andare a Shanghai, Guangzhou o Pechino. Non c’è più bisogno di passare da Hong Kong».
Lei prevede il rischio di violenze?
«Finora Xi ha consentito alle forze locali di gestire la crisi. È possibile che ci riescano, e magari la comunità degli affari convincerà i manifestanti a fermarsi. Se la situazione però non si calmerà da sola, Pechino interverrà, e allora esiste il concreto rischio di uno spargimento di sangue».
Una nuova Tiananmen?
«Sul piano politico no, perché i manifestanti di Hong Kong non hanno l’appoggio del resto della popolazione cinese, che li considera bambini viziati e si sente maltrattata da loro. Proprio per questo, però, il governo centrale non può consentire all’ex colonia britannica di dettare le regole, minacciando così la stabilità in tutto il Paese. Se dunque i manifestanti non si fermeranno, Pechino non esiterà ad usare la violenza, anche perché il resto del mondo non può fare granché per fermarla».
A metà novembre il presidente Obama dovrebbe andare a Pechino, per il vertice dell’Apec e una visita bilaterale, che era stata presentata come l’occasione per ricostruire il rapporto. Non potrebbe annullarla, come ha fatto con il G8 a Sochi?
«Non credo. La relazione con la Cina è troppo importante per gli Usa per comprometterla a causa del destino di Hong Kong».
Anche se ci fossero violenze come quelle esplose all’epoca di Tianamen?
«Io credo che il presidente Obama, come tutti i leader occidentali, alzerà la voce e condannerà l’eventuale uso della forza, ma senza spingersi alle iniziative prese contro la Russia, che peraltro non hanno avuto grandi effetti fino a questo momento. Il governo cinese, da parte sua, finora ha dimostrato prudenza, non mandando l’esercito nelle strade. Pechino cercherà una soluzione pacifica, ma restando assolutamente ferma sulle questioni di fondo».
Paolo Mastrolilli, La Stampa 30/9/2014