la Repubblica 30/9/2014, 30 settembre 2014
PECHINO RITIRA L’ESERCITO MA AVVERTE L’OCCIDENTE “NESSUNA INTERFERENZA”
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Kiko Kwok sorride stanca, lancia un fiore contro un blindato e alza un foglio. «Amici — c’è scritto — scioperate anche voi». La polizia però non risponde più agli appelli con manganelli, lacrimogeni e proiettili di gomma. «Tornate a casa — dice un agente — noi dobbiamo ubbidire agli ordini». Dal suo plotone, che difende un centro commerciale di Causeway Bay — spunta un cartello: «Ritiratevi o spariamo».
Rispetto al fine settimana di guerra, ad Hong Kong, il clima appare cambiato. Le proteste democratiche anti-Pechino crescono di ora in ora, mentre la repressione ordinata dalle autorità filo-cinesi sembra esaurita. All’ora di pranzo gli agenti in assetto anti-sommossa, protetti da caschi e maschere anti-gas, improvvisamente si ritirano e le forze di sicurezza quasi scompaiono dalla metropoli, facendosi invisibili. Altri quartieri e nuove strade, prima contese con la violenza agli studenti, cadono così senza sforzo in mano agli attivisti di Occupy Central. Da una parte decine di migliaia di manifestanti, quasi disorientati, dall’altra un apparato di sicurezza che, apparentemente, smobilita. È il tentativo estremo di Pechino di allentare la tensione nell’ex colonia inglese, in rivolta contro la riforma elettorale-truffa approvata dal partito comunista, deciso a pilotare le elezioni del 2017.
La tattica cinese è cambiata. Negli ultimi giorni, scossi dello scioperi degli studenti, più si stringeva la repressione, più crescevano feriti e arresti, più le immagini tivù sconvolgevano gli hongkonghesi e maggiore diventava la massa degli oppositori in piazza. Il rischio di una Tienanmen del 2000, sotto i riflettori del mondo, deve aver spaventato anche il presidente Xi Jinping e nella notte, dalla Città Proibita, è giunto l’ordine di «evitare inutili provocazioni». Il chief executive CY Leung, delegittimato dai suoi «azionisti rossi», a metà giornata è costretto a smentire le voci di un imminente intervento dei 7 mila effettivi dell’esercito di liberazione del popolo, dislocati alle porte dell’ex Victoria. Hong Kong vive così una sfibrante giornata di stallo, sospesa tra l’abisso di una repressione spietata e la speranza di una pacifica ripresa del dialogo. La Borsa apre e chiude con gravi perdite, la fuga dei capitali dalla cassaforte comunista si profila reale, il dollaro locale precipita ai minimi da sei mesi. I quartieri amministrativi e finanziari, tra Admiralty e Central, non sono più il cuore delle proteste, estese a tutte le isole affacciate nel Mar Giallo. Decine di migliaia di giovani, dopo giorni di lotta, dormono sui marciapiedi e negli autobus vuoti. Altri seguono comizi dei leader democratici, cantano e disegnano colombe sui muri dei grattacieli, o puliscono i perfetti parchi vittoriani, ora invasi di rifiuti.
La rivolta, educatissima e non violenta, adotta anche un nome ufficiale: «Rivoluzione degli ombrelli», ispirato ai parapioggia opposti dalla gente a lacrimogeni e spray urticanti. Non è più l’insurrezione di studenti e attivisti democratici, ma una disobbedienza civile che coinvolge la maggioranza della popolazione, saldando generazioni cresciute in condizioni sideralmente diverse. Il segno di riconoscimento di chi «non accetta di diventare uno schiavo cinese» è un nastro giallo allacciato al polso. Per le vie dello shopping e degli affari, paralizzate, giovani e anziani gridano ai rari poliziotti «vergogna, ritiratevi», mentre i leader democratici chiariscono le condizioni per sospendere le occupazioni: le dimissioni del «fantoccio CY Leung», il ritiro della riforma elettorale che affida a Pechino la preselezione dei candidati, lo stop alla repressione. «Hong Kong e il mondo — dice il fondatore di Occupy Central, Tai Yiu Ting — ora vedono il vero volto di Xi Jinping e della Cina». Ammirazione e rispetto verso la seconda economia del pianeta appaiono consumati. Una svolta storica irreversibile, che riavvicina la metropoli alla status precedente al 1997. Torna a crescere la voglia di indipendenza e di Occidente, esplode la rabbia contro la minacciosa «madrepatria».
Migliaia di uffici, di scuole, di negozi, di banche e di aziende restano chiusi, bloccate 200 linee di bus, soppresse decine di fermate del metrò. Il governo cittadino annuncia che i festeggiamenti del primo ottobre, festa nazionale in Cina, «alla luce della recente situazione» sono soppressi. Niente fuochi d’artificio sul Victoria Harbour, niente parata militare per il 65° anniversario della Repubblica di Mao. La città vede sfumare la settimana d’oro degli affari, quando i turisti cinesi avrebbero sommerso di soldi shopping center e hotel. Da una parte studenti, professori, avvocati, intellettuali, chiesa cattolica, dissidenti sopravvissuti a Tienanmen, tutto il popolo escluso dal boom della ricchezza cinese. Dall’altra milionari, funzionari, la comunità dominante del business e gli anziani nostalgici del maoismo. Hong Kong vede lo spettro di instabilità e declino, ma pure quello della perdita di libertà e diritti universali. Washington e Londra si schierano «con gli insorti che vogliono la democrazia».
Pechino, mantenendo all’interno censura e propaganda sui «vandali estremisti che distruggono una società pacifica», avverte «i governi stranieri di astenersi da dichiarazioni e azioni che interferiscono con la politica interna di uno Stato sovrano». E’ il punto cruciale, perché la realtà è che Hong Kong, da 17 anni, è cinese a tutti gli effetti e sa bene che il suo guinzaglio lungo, patteggiato tra Deng Xiaoping e Margareth Thatcher, sarà comunque tagliato nel 2047. Così oggi nessuno può muovere un passo, né in avanti, né all’indietro: Pechino non rinuncerà ad applicare l’autoritarismo rosso in una sua regione, Hong Kong non rinuncerà ai diritti che l’hanno resa ricca. È il nuovo Muro dell’Asia, che attraverso Admiralty divide l’universo cinese da quello Usa: l’incertezza nasce dal non sapere chi cederà prima, l’incubo è che nessuno lo faccia.
Giampaolo Visetti, la Repubblica 30/9/2014
L’APPELLO DEL CARDINALE TONG “ASCOLTATE QUEL GRIDO D’ALLARME” –
HONG KONG.
Nella crisi di Hong Kong scende in campo la Chiesa cattolica locale, schierandosi apertamente a favore dei manifestanti: il cardinale John Tong Hon, vescovo della regione, lancia un «appello urgente» alle istituzioni per porre fine alle violenze e prestare attenzione alla voce dei giovani.
«Vorrei sinceramente invitare il governo della Regione amministrativa speciale di Hong Kong a mettere la sicurezza personale dei cittadini al primo posto nella lista delle proprie preoccupazioni», scrive il cardinale chiedendo alle autorità di «ascoltare la voce delle giovani generazioni e dei cittadini di tutti i ceti sociali». E il cardinale Joseph Zen Ze-kiun, l’82enne vescovo emerito di Hong Kong divenuto una delle figure pubbliche più impegnate a sostenere le richieste del movimento di protesta, è addirittura sceso in piazza accanto ai manifestanti perorandone apertamente la causa.
Dopo aver marciato nel luglio scorso per 84 ore per invitare la popolazione a partecipare al referendum sulla democrazia, pronunciando discorsi pubblici a favore del sistema “un uomo, un voto”, il cardinale Zen è rimasto ieri per tutto il giorno nel cuore del distretto finanziario di Hong Kong insieme ai manifestanti. Qui, con un gruppo di cattolici, secondo l’agenzia dei missionari AsiaNews ha animato una preghiera collettiva e ha condannato duramente la repressione governativa contro il movimento “Occupy Central” definendola «testarda» e «immotivata».
Accanto ai due vescovi, altri due cattolici stanno sostenendo la protesta della piazza: il politico Martin Lee, cattolico democratico, e l’imprenditore Jimmy Lai, indagato per corruzione per aver sostenuto negli anni il movimento democratico con donazioni. «Dove c’è la volontà c’è una strada», ha scritto ieri il cardinale Tong chiedendo ai cattolici di pregare per la riconciliazione dopo «gli eventi spiacevoli avvenuti a Central, Admiralty e Wanchai negli ultimi giorni».
la Repubblica 30/9/2014
“IL GOVERNO NON È DISPOSTO A CEDERE MA VUOLE EVITARE GLI ERRORI DEL PASSATO” – [Intervista a Richard Mcgregor] –
«Pechino non ha gli strumenti per agire, sono palesemente in grandi difficoltà. Non so come andrà, ma so che al momento la Cina ha bisogno di muoversi con diplomazia. Perché non sono lontane le elezioni a Taiwan e perché avrà in casa il vertice Apec a novembre». Richard McGregor conosce bene il Partito comunista cinese, il suo “The Party” nel 2010 ne ha spiegato molti segreti. Sulla protesta di Hong Kong, vede più difficoltà che soluzioni. E precisa: «Loro non sarebbero certo contenti di rifare l’errore di Tienanmen».
McGregor, quali strumenti mancano?
«Servirebbe un bravo politico, capace di andare a parlare con i giovani e convincerli a tornare a casa anche senza fare grandi concessioni. Ma non c’è».
Come andrà ora, con l’anniversario della nascita della Repubblica popolare cinese alle porte, il primo ottobre?
«Forse gli studenti arriveranno a liberarsi di Chun-ying, ma certo a Pechino non sono abituati ai compromessi».
Siamo a 25 anni da Tienanmen, crede che il Partito ci stia pensando?
«Certo. Anche se non si sono mai scusati di quel che fecero, sanno che fu un grande errore».
Arriveranno a un intervento diretto?
«Stanno chiaramente dibattendo sul tema, indecisi. A inizio 2016 ci saranno le elezioni a Taiwan, dove sono già per metà favorevoli all’indipendenza dalla Cina. In più, fra 40 giorni a Pechino c’è l’incontro dei 21 leader dell’Asia-Pacific Economic Cooperation. I cinesi lo stanno preparando con gesti di pacificazione anche verso il Giappone. Non hanno bisogno di tensioni».
Crede che le proteste di Hong Kong arriveranno in Cina?
«Se ci sarà violenza contro chi è in piazza, è possibile. Altrimenti non credo».
Siamo davanti a un esempio di come il capitalismo da solo non arrivi a creare democrazia?
«Per ora è così, ma le giovani generazioni stanno crescendo. È presto per dirlo».
Alessandra Baduel, la Repubblica 30/9/2014