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 2014  settembre 30 Martedì calendario

CORANO, TRADURRE O COMMENTARE?

Il governo austriaco intenderebbe richiedere per legge una versione unica in tedesco del Corano, per evitare che estremisti possano strumentalizzarlo. Lo ha detto il ministro degli Esteri Sebastian Kurz in un’intervista radiofonica, spiegando che la traduzione sarà scelta dai vertici della comunità islamica au­striaca, che conta mezzo milione di per­sone. La portavoce della comunità, Car­la Amina Baghajati, pur ricordando che è molto difficile definire una versione “corretta” – nel senso di unica – del Co­rano dal momento che le parole arabe possono avere un’ampia gamma di si­gnificati, si è detta aperta al dialogo.
La notizia in realtà può far sorridere chi sa che il Testo di riferimento è comun­que quello in arabo, l’unico utilizzabi­le anche ai fini liturgici… Ma, specie per le nuove generazioni di immigrati musulmani, le traduzioni in lingue eu­ropee non sono prive d’importanza. Più che nella traduzione, tuttavia, è ne­gli apparati e nei commenti che le ac­compagnano che si cela l’interpreta­zione dei versetti e la concezione del libro “rivelato” La prima versione italiana risale al 1547, stampato a Venezia da Andrea Arrivabe­ne, ma è una ripresa del volume latino stampato dal Bibliander che a sua volta dipendeva da quello di Pietro da Cluny. Solo tre secoli dopo, Vincenzo Calza (console generale pontificio ad Algeri) ne poteva proporre una nuova, tuttavia trasposta da quella francese di Kazimir­ski, così come quella pubblicata da Pan­zeri a Milano nel 1882 prendeva le mos­se da un’altra versione francese, quella del Savary (e un giornalista pochi anni dopo faceva anche di peggio). Solo nel 1914 un onesto professore di arabo del­le Regie Scuole Tecniche di Milano par­tiva finalmente dall’originale arabo, a so­stengo delle velleità italiane in Libia, ma con risultato non del tutto soddisfacen­te, visto che lo stesso editore, Hoepli, ne editava un’altra solo pochi anni dopo – 1929 – ad opera di Luigi Bonelli, turco­logo versato anche nella lingua araba.
Nel 1955 fu la volta dell’ancora in­superata traduzione di Alessan­do Bausani, poi nel 1967 di quel­le del console italiano in Libano Martino Mario Moreno, del sacerdote Federico Peirone nel 1979 e del salesiano Cherubino Mario Guzzetti, dieci anni do­po. Intanto era uscita nel 1986 la prima fatta su iniziativa di musulmani, ma si trattava degli Ahmadiyya, corrente dif­fusa in Pakistan e India, ma ritenuta e­retica e comunque di scarsissima diffu­sione. Nel 1993 un altro giornalista, d’i­spirazione sciita, diede alle stampe una versione di chiara origine anglofona.
Con il Saggio di traduzione interpretati­va del Santo Corano Inimitabile (edito da Al Hikma a Imperia nel 1994) a cura dell’Ucoii si ha la prima traduzione ad ampia diffusione a cura di musulmani i­taliani, nella quale l’intento apologetico e polemico è lampante in varie note. So­no numerosissime e sembrano rispon­dere più a intenti catechetici e apologe­tici che scientifici. Lo si comprende be­ne da commenti come il seguente, che spiega il versetto 10 della sura 2: «Nei lo­ro cuori c’è una malattia…»: «“Una ma-l­attia”: il dubbio. Nella cultura occiden­tale si è scritto detto molto a proposito dell’importanza del dubbio, del valore assoluto della critica per preservare la società e la cultura dalle aberrazioni to­talitarie e assolutiste. Tutto questo può anche essere vero, in una cultura che si basa su teorie umane, su assunti ideolo­gici o filosofici concepiti dall’uomo, su principi etici contingenti e instabili. Quando però ci si trova di fronte alla Pa­rola di Allah, alla Rivelazione della Sua Dottrina e della Sua Legge, questo dub­bio è davvero una malattia, un qualcosa di distruttivo e destabilizzante» (p. 27, nota 10).
Quanto a «ma gli uomini sono superio­ri (alle donne)» (2, 228) il commento non contestualizza nella mentalità del tem­po, ma giustifica in generale: «La strut­tura fisica dell’uomo è capace di grandi sforzi e di exploit significativi; quella del­la donna, di fatica mediamente riparti­fronte, ta e grande sopportazione del dolore. La sensibilità maschile è tutta esteriore, proiettata in un ambito extrafamiliare che tende a diventare pubblico e politi­co. Quella femminile è interiore, attenta a se stessa, tesa alla protezione di quan­to acquisito o all’acquisizione di sem­plici mezzi di sostentamento e sicurez­za. La psicologia maschile è immagini­fica, creativa, sperimentale, amante del rischio, desiderosa di novità, di afferma­zione dell’io, il più delle volte superfi­ciale. Quella femminile è concreta, tra­dizionale, nemica dell’azzardo, deside­rosa di certezze, di conservazione del “mio”, il più delle volte profonda e limi­tata » (p. 55, nota 185).
Le prospettive di dialogo tra cri­stiani ed ebrei vengono sbrigati­vamente liquidate: «Recenti pre­se di posizione del mondo catto­lico potrebbero far credere che la seco­lare inimicizia tra ebrei e cristiani sia or­mai superata. Chi porti la sua analisi ol­tre le apparenze non tarderà a riscon­trare che si tratta di prese di posizione tattiche. In realtà la recondita ostilità fra le due comunità resta invariata e, come è detto nel Corano, permarrà sino al Giorno della Resurrezione» (p. 116, no­ta 40) e sugli ebrei in particolare si riba­discono pregiudizi probabilmente man­tenuti vivi da sentimenti legati al con­flitto arabo-israeliano: «Ingrati verso il loro Signore, furono condannati ad e­sercitare nel corso dei secoli quella fun­zione antitradizionale e reietta che ha procurato loro tante peripezie e dolore» (p. 154, nota 38), «la gran parte del po­polo d’Israele è diventato il campione di quella doppiezza morale in base alla quale nei confronti dei non-ebrei è ac­cettabile e impunita qualsiasi nefandez­za, mentre la rettitudine morale è un ob­bligo soltanto verso i correligionari» (p. 276, nota 30).
Dieci anni dopo, ne Il Corano, traduzio­ne e apparati critici di Gabriele Mandel (Utet, Torino 2004) con testo arabo a si cade talvolta in analoghe deri­ve: «In linea di massima l’uomo ha più buonsenso e misura della donna, le è su­periore nella ragione, ma la donna lo su­pera in sensibilità e intuito» (p. 729) e «Il “grado superiore” (i. e. sempre dei ma­schi rispetto alle femmine) è quello del­la ragione sulla sensibilità (del raziona­le sull’irrazionale), poiché con la sensi­bilità non si possono stabilire le Leggi e governare il mondo» (p. 730).
Com’ebbe a dire, all’alba dell’islam, Ali fi­glio di Abu Talib – cugino e genero del Profeta, avendone sposata la figlia pre­diletta Fatima –, «il Corano è un testo muto fra due copertine, sono gli uomini che lo fanno parlare!».
Non solo coi commenti, tuttavia, poiché anche la decisione di mantenere nelle traduzioni l’o­riginale “Allah” invece che ren­derlo con “Iddio” (senso letterale del ter­mine, usato anche dai cristiani arabi) già indica cosa si pensa della condivisione – almeno tra monoteisti che si rifanno ad Abramo – del medesimo Signore.
Il che sfugge evidentemente a quei mu­sulmani della Malesia che vorrebbero re­stringere l’uso del termine Allah ai soli i­slamici… quasi fosse il Suo nome pro­prio, bizzarra e inquietante imposizione per chi sa almeno qualcosa di lingue se­mitiche!