Paola Del Vecchio, Il Messaggero 30/9/2014, 30 settembre 2014
CATALOGNA CON IL VOTO SOSPESO
MADRID La Catalogna non potrà svolgere il referendum sull’indipendenza il 9 novembre, perché è illegittimo. La sospensione è stata decisa ieri sera all’unanimità dai 12 togati della Corte costituzionale, riuniti in tempo record per esaminare il ricorso alla legge di consultazione e al decreto di convocazione, approvato in mattinata dal Consiglio dei ministri in seduta straordinaria. Una risposta che, con la Costituzione del 1978 alla mano, ufficializza lo scontro sul piano istituzionale, con una crisi senza precedenti fra la Madrid e Barcellona. Un «dovere fermare il referendum sull’autodeterminazione» poiché, sebbene consultivo, «attenta ai diritti di tutti gli spagnoli e all’unità indissolubile della Spagna», ha tuonato il primo ministro Mariano Rajoy, che ha accusato Mas di avere imposto «una politica di decisioni unilaterali e fatti consumati». Il premier ha aperto uno spiraglio per una riforma costituzionale, ma solo «nella legalità. Siamo in tempo a raddrizzare la rotta».
LE INCOGNITE
Ma cosa farà il governo, se la Generalitat ignorerà la sospensione (di 5 mesi, prima della “cassazione” definitiva), convocando comunque le urne? «Non voglio contemplare uno scenario diverso dal rispetto della decisione dell’Alta Corte», ha tagliato corto Rajoy. Ma la preoccupazione che la sfida catalana possa sfociare in insubordinazione è alta. L’Assemblea nazionale catalana, la piattaforma finanziata dal governo della regione e usata come “braccio armato” nel muro contro muro con Madrid annuncia mobilitazioni in piazza.
La posta in gioco è alta nella regione più ricca della Spagna, con un Pil di 200 miliardi, pari al 20% di quello spagnolo. Dove, nel 1978, il 91% dei catalani votò a favore della Costituzione, che riconosceva solo in parte le sue aspirazioni politiche - cancellate da Franco e dalla brutale repressione della Seconda Repubblica - assegnando alle 17 regioni il controllo di oltre un terzo della spesa pubblica, con la responsabilità totale sui servizi primari, scuola e sanità, autonomia linguistica, ma costringendole a dipendere quasi interamente dai trasferimenti statati. Oggi, secondo i sondaggi, l’81% è a favore del referendum, anche se la percentuale degli indipendentisti è in flessione: il 47,2% a fronte del 51% dei contrari secondo l’ultimo sondaggio de El Periodico de Catalunya. «È un problema politico che va risolto politicamente. Ma la crisi globale ha reso più evidente la situazione sfavorevole, fino a metterne a rischio sviluppo e welfare», osserva Jordi Casassas Ymbert, cattedratico e presidente dell’Ateneo di Barcellona. «Ci vorrebbe un Gordon Brown che venisse qui a spiegare gli effetti deleteri della secessione, invece di Mariano Rajoy, che si trincera dietro la Costituzione», rincara Albert Saenz, direttore aggiunto de El Periodico.
GLI EFFETTI
«Quello che gli fa paura è la risposta che potrà uscire dalle urne», ha insistito Artur Mas, alzando il tono della sfida. Ma «c’è meno gente disposta a votare un referendum illegale, perché da movimento democratico e pacifico qual è, l’indipendentismo diventerebbe antisistema», osserva ancora Sanz. Cinque anni di crisi hanno reso la Catalogna la regione più indebitata di Spagna, con oltre 57,6 miliardi di euro. Ai quali si aggiungerebbe, in caso di indipendenza, il 20% del biliardo di euro del debito spagnolo. L’uscita dall’Unione Europea, già paventata da Bruxelles, è la preoccupazione maggiore degli imprenditori, assieme all’uscita dall’euro. Il costo iniziale dell’indipendenza, 4,5 miliardi di euro al mese. Ma il danno sarebbe bipartisan, perché la rottura commerciale fra Madrid e la Catalogna è stimata in una caduta del 5,7% del Pil catalano e dell’1,4% di quello spagnolo. Il tutto, mettono in guardia gli economisti, senza tener conto della fuga delle maggiori banche della regione, CaixaBank e Sabadell, che dovrebbero trasferire le sedi in altre comunità per ottenere i finanziamenti dalla Banca centrale europea. In Scozia è bastata la sola minaccia delle centrali bancarie e delle grandi imprese di trasferire gli uffici a Londra a far tremare la borsa e far pendere la bilancia per il “no” all’indipendenza.