Stefano Carli, Affari&Finanza – la Repubblica 29/9/2014, 29 settembre 2014
PA, GLI APPALTI SOMMERSI DAL MERCATO SPARISCONO 30 MILIARDI DI EURO L’ANNO
Quante società controlla il Comune di Roma? Non si sa, non c’è nessuna visura camerale che lo riporti. E così per tutti gli 8 mila comuni italiani. E quante il governo? Il numero è incerto. Nel sito Internet di ogni ministero c’è la sezione Amministrazione Trasparente; in quella della Presidenza del Consiglio vengono riportate società e enti controllati e vigilati: sono 7 in tutto. Tra Istat e Formez, comitato Paralimpico, Aeroclub d’Italia, Credito sportivo c’è anche il Coni. Ma che il Coni controlli Coninet, joint venture con Aci Informatica non è scritto da nessuna parte. E’ una delle tante partecipate della Pa che sottraggono al mercato 30 miliardi l’anno di spesa pubblica. P er tutte queste cosiddette società “in-house” c’è però una data che dovrebbe segnare un punto di svolta: primo gennaio 2015. Con il nuovo anno dunque molte cose cambieranno: non grazie alla legislazione italiana ma per l’entrata in vigore di una direttiva Ue. Che dice una cosa semplice: che le società in-house potranno continuare a ricevere dall’ente pubblico di cui sono emanazione appalti in affidamento, cioè senza gara, solo a due condizioni certe. Che siano a rigoroso controllo pubblico, con i soci privati eventuali in posizione di minoranza e senza poteri di blocco; che operino esclusivamente in quell’ambito e non vadano a cercare clienti in altri mercati facendo concorrenza ai privati. Il problema può riguardare anche le grandi utlitiy, da Acea a Hera, da Iren ad A2a. Non sono a rischio le loro attività di mercato, ma quelle in affidamento: per esempio l’illuminazione pubblica (sarà per questo che siamo il paese più illuminato d’Europa di notte, come ha rilevato Carlo Cottarelli analizzando immagini satellitari, ma non si sa a che prezzo oltre che perché). L’erogazione di energia, l’acqua e i rifiuti se sono stati conquistati attraverso una gara pubblica non daranno problemi, altrimenti dovranno essere aggiudicati ex novo. Non accadrà tutto assieme il primo gennaio, ma un po’ alla volta al termine del periodo di affidamento, che dovrebbe essere messo nero su bianco nei contratti, o al massimo alla scadenza dell’ennesima proroga. Ma qui sta il problema. Chi li ha mai visti i contratti? La cosa potrebbe non avere rilievi particolarmente problematici per i grandi comuni e i grandi contratti visto che si tratta spesso di società quotate obbligate alla trasparenza sulle loro azioni. Ben diversa è invece la situazione per tutti gli affidamenti dei comuni minori e a società più piccole. Ed è qui che il fenomeno si fa particolarmente oscuro e opaco. Quante siano le in-house non si sa. Si sa che vanno cercate dentro le 8 mila stimate - o dedotte - da Carlo Cottarelli. Non si sa quanti posti di lavoro garantiscano si sa però che il loro giro d’affari complessivo è stimabile sui 30 miliardi: un quarto di tutta la spesa pubblica per l’acquisto di beni e servizi. Ed è come dire che un euro su quattro spesi dalla pubblica amministrazione per acquistare qualcosa è speso nella più totale opacità. Sì, perché le società in-house si fanno per non fare gare. Sono insomma soldi sottratti al mercato e alla garanzia, attraverso le gare, che l’utilizzo di queste risorse sia efficiente e redditizio. O quanto meno controllabile. Dei 130 miliardi di spesa pubblica annuale per l’acquisto di beni e servizi (gli investimenti non rientrano in queste casistiche) ne vengono assegnati a gara 90 miliardi. La cifra è definibile perché è la somma di tutti gli acquisti avvenuti con trattative pubbliche e debitamente registrati nella Vcp, la Vigilanza sui contratti pubblici ora confluita nella banca dati dell’Anac, l’Agenzia nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone. Dei 40 miliardi che sono la differenza tra il totale e i 90 censiti, una parte sono le spese destinate agli armamenti, un’altra parte sono invece contratti assegnati a gara ma prorogati e altre voci. Insomma, è difficile vederlo scritto nero su bianco, si va spesso per approssimazione. Basi pensare che la stessa banca dati dell’Anac non registra i contratti di gare per importi inferiori a 60 mila euro, ma tra ministeri, Ragioneria e Corte dei Conti il luogo comune è che questa partita abbia un perimetro di appunto una trentina di miliardi. E sono 30 miliardi che stanno per tornare la mercato e diventare una nuova fonte di ricavi per il settore privato delle aziende di servizi locali. Ma ora il problema numero uno è riuscire a mettere in qualche modo sotto controllo questa contrattualistica iperpolverizzata e stanare tutte queste società. Non c’è riuscito nemmeno Cottarelli, d’altra parte il tempo era poco, ma già la differenza tra le sue 8 mila società stimate e le 5.800 che risultano dal censimento della Funzione Pubblica dice molto: la ragione è che il censimento è stato realizzato su base “volontaria” e nessuna penalizzazione ha colpito chi non ha risposto. Anche confrontare i conti è difficile. I soldi in uscita sono nei bilanci degli enti di emanazione alla voce “debiti verso controllate” o “acquisto di prestazioni per beni e servizi”. In quelli delle in-house sono alla voce ricavi o crediti, ma è impossibile incrociarli perché sono macro aggregati. Senza contare che i bilanci di queste società sono “certificati” non da iscritti all’albo dei revisori contabili ma da “verificatori” pescati da un albo speciale del ministero dell’Interno. E non è detto che abbiano le giuste caratteristiche professionali. La stessa Corte dei conti fa fatica. Anzi, ha proprio le mani legate: è un pasticcio che data dal 2009, l’anno del terremoto dell’Aquila, l’anno in cui una legge, la 78, dispone che la Corte dei Conti non possa indagare su presunti reati di danno erariale commessi nell’ambito dei contratti pubblici se non siano già comprovati “fattispecie” e “importo”. Insomma, a differenza della magistratura ordinaria, per i magistrati contabili dello Stato la “notizia di reato” non basta. Risultato, si abbattono i controlli sulle società pubbliche e controllate da enti pubblici e queste, le società “in-house” appunto, si moltiplicano. Non potendo fare indagini la Corte dei Conti ha cercato almeno di scattare una foto. Nel Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica 2012 ha individuato circa 5 mila soggetti partecipati da enti locali, la metà dei quali attivi nel settore delle utility. Il 78% ha ricevuto un affidamento diretto. Nell’aggiornamento 2013 del documento la Corte ha rilevato oltre alle 5.258 partecipate da enti locali, 50 società partecipate dalla Pa centrale e 2.214 tra consorzi, fondazioni e associazioni. Tra le 5 mila, una su 4 ha i conti in rosso ma questo non è di per sé significativo perché visto che i loro bilanci dipendono dai prezzi che fanno agli enti controllanti, chiudere l’anno in rosso o in attivo è solo strumentale a chiedere per l’anno successivo più soldi oppure no. Insomma, non è detto che quando i bilanci sono formalmente sani ciò sia una buona notizia per le tasche dei cittadini. Prendiamo l’esempio delle gestioni museali. Il sistema è formalmente in attivo, visto che costa 350 milioni l’anno e ne incassa 380. Il fatto è che se ben gestito il settore potrebbe dare ogni anno, a parità di costi, un attivo non di 30 milioni ma di un paio di miliardi. C’è un’iniziativa in rampa di lancio ai Beni Culturali proprio per questo. E lo stesso può valere per tutto il resto. Dalle terme municipali agli enti lirici.
Stefano Carli, Affari&Finanza – la Repubblica 29/9/2014