Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 27 Sabato calendario

LE GUERRIERE CHE SFIDANO IL CALIFFATO

«Se andrò a combattere contro i criminali dello Stato islamico, lo farò con i curdi siriani. Sono generosi e seri. Gli unici che ci hanno difeso veramente, a costo di rischiare la loro vita». Non ha timore di dirlo ad alta voce Ziad Khalaf Qasim, incontrato assieme alla marea di fuggiaschi yazidi sopravvissuti alla furia criminale dei jiadisti sunniti. Lo esclama seduto sotto un eucalipto ingrigito dalla polvere presso il ponte di Faysh Khabur. Alle nostre spalle lo scorrere lento del Tigri e il ponte che segna il confine tra zone curde siriane e la regione autonoma del Kurdistan iracheno.
Ha 27 anni Ziad e ha studiato letteratura inglese all’università di Mosul. Sino all’estate del 2011 aveva lavorato come interprete per le truppe americane. Dopo il loro ritiro, si era arrangiato con impieghi occasionali nei negozi degli zii a Sinjar, la città a maggioranza yazida attaccata e devastata dai jiadisti ai primi di agosto. Con noi, qui, al ponte potrebbe esprimersi in inglese. Ma parla ad alta voce in arabo. Lo fa apposta, affinché tra le centinaia di sfollati appena arrivati come lui dall’epopea della montagna di Sinjar, e ora sdraiati finalmente a riposare dopo settimane di terrore, tutti capiscano.
E, infatti, molti muovono il capo in modo affermativo. «Se non ci fossero stati i miliziani del Ypg noi saremmo tutti morti. Tra loro le donne sono inquadrate in unità combattenti. Non lo fanno solo per le telecamere occidentali. Si battono davvero, con gli uomini in prima linea» gli fanno eco tre ragazzine che dimostrano meno di diciotto anni sedute vicino. Ypg è l’acronimo curdo che sta per “Unità di protezione popolare”, la milizia creata dallo scoppio della guerra civile in Siria nella primavera del 2011 con il compito sostanziale di difendere le aree curde nell’estremo Nordest del Paese. Poche armi, tanti volontari, soprattutto tanto coraggio dettato dalla disperazione di chi non ha altre scelte. I curdi siriani rischiano di essere sterminati in massa dai jihadisti combattenti in nome dell’auto-proclamato Califfato.
La loro storia si può provare a riassumerla qui, in questo lembo estremo di terra contesa e oggi insanguinata da crudeli guerre dal sapore un poco medioevale. È una storia complicata, perché da sempre i curdi sono un popolo diviso, spesso lacerato da gravi lotte tribali e condizionato dai Paesi vicini, che in modo diretto o indiretto influenzano le varie fazioni a seconda dei rispettivi interessi nazionali. Gli stessi circa 5 milioni di curdi iracheni, che dal 1991 godono di un crescente benessere (specie se confrontato con lo sfascio del Paese tutto attorno) e superficialmente di una forte coesione interna, vedono, invece, covare sotto la cenere le frizioni mai sopite tra i clan legati ai Talabani nelle province orientali e invece i Barzani in quelle occidentali. Oggi il loro interesse è restare uniti, mantenere ottimi rapporti con la Turchia, che garantisce i commerci e il successo economico, e soprattutto tenere sotto un comando unico i peshmerga (le loro unità combattenti, oltre 100 mila uomini) per far fronte alle minacce che arrivano dall’esterno.
In verità, non va dimenticato che ancora a metà degli anni Novanta il clan Barzani non esitò ad allearsi con Saddam Hussein (il cui esercito si era macchiato di crimini orribili contro i curdi, persino ricorrendo all’uso delle armi chimiche), pur di battere i Talabani, che a sua volta riceveva aiuto dall’Iran. Anche con i curdi siriani non sono tutte rose e fiori. Nonostante l’antica utopia curda sia quella di creare uno Stato unitario a cavallo tra Iraq, Siria, Turchia e Iran, la realtà è che sino a pochi mesi fa tra Erbil, la capitale amministrativa del Kurdistan iracheno, e Qamishli, quella delle zone siriane, non correva affatto buon sangue. Da Ankara lo avevano detto in modo chiaro ai dirigenti di Erbil: se voi vi alleate a Qamishli, noi chiudiamo la frontiera e strozziamo la vostra economia. Ai turchi non piace affatto il legame storico tra il Pkk, il Partito dei lavoratori del Kurdistan, lo storico movimento armato della sinistra curda indipendentista accusato di “terrorismo”, e i “fratelli” siriani, che oltretutto dal 2011 cooperano militarmente con la dittatura di Damasco contro le brigate dei ribelli fondamentalisti sunniti. La situazione è cambiata con la crescita della minaccia dello Stato islamico. La sua presa di Mosul ai primi di giugno e quindi le vittorie clamorose ai primi di agosto soprattutto (ma non solo) contro l’esercito regolare di Bagdad, hanno spinto tutte le forze regionali a serrare i ranghi.
E il rapido intervento aereo americano a partire dall’8 agosto ha cementato le nuove alleanze. se non ci fossero stati i raid americani, oggi facilmente Erbil sarebbe nelle mani dei tagliagole islamici», dicono apertamente i diplomatici occidentali in Iraq. Ciò non toglie però che, mentre i curdi iracheni hanno avuto bisogno degli aiuti americani e poi degli altri alleati occidentali (tra cui l’Italia) per cercare di riprendere l’iniziativa bellica, i curdi siriani hanno fatto quasi tutto da soli, perdendo alcune migliaia di combattenti. Una delle battaglie più importanti è avvenuta tra l’altro vicino ai pozzi petroliferi di Remilan (che si calcola possano produrre sino a 90 mila barili di greggio al giorno, ndr), una trentina di chilometri dal confine con l’Iraq. «I curdi siriani sono saliti sino sulla cima della montagna di Sinjar per cercare di salvare la nostra gente. Da soli hanno aperto corridoi umanitari e tenuto a bada un nemico molto più forte per uomini e mezzi» rivelano ancora gli yazidi. «Oggi sono quelli di Qamishli i veri eredi dei vecchi combattenti curdi, i leoni delle montagne».