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 2014  settembre 27 Sabato calendario

«IN PASOLINI IL VERSO FA SEMPRE IL SUO GIRO»

Difficile trovare registi, scrittori, persone, che abbiano in loro, così forte, il sentimento della comunità. Giorgio Diritti, sceneggiatore, produttore, documentarista, autore, oggi in senso ampio, ne ha fatto il cardine del suo mestiere, quasi una mistica incentrata sull’altro. I suoi film ne sono testimonianza a carne viva. Quello d’esordio, Il vento fa il suo giro che diventò un caso e per la lunghissima permanenza in sala, guarda a una comunità occitana che respinge chi cerca l’inserimento. L’uomo che verrà è la tragedia di una comunità, la strage di Marzabotto e gli anni 1943-’44 osservati da una bambina di otto anni. «Un giorno devi andare» è la fuga dalla comunità, nella quale ha la meglio la ricerca della propria interiorità.
Nel suo esordio letterario, Noi due, Diritti mette insieme i due temi d’elezione, aggiungendoci un sentimento, l’amore, che migrando si sfilaccia. All’inizio, all’Aquila, è fortissimo perché insieme, poi la partenza, lui in Emilia lei a Genova e la lontananza fa più danni del vento.
Diritti, lei è uso al racconto cinematografico, il romanzo perciò non l’avrà sentito come un esordio. Oppure sì?
«Esordio o no, mi è venuto naturale, anche passare a una dimensione dilatata in tempi e ampiezza della storia. Ci sono delle vicende che chiedono l’ambito letterario. Scrivendo sceneggiature spesso mi affido al sottinteso, svelato da un’inquadratura. I dettagli li scopri poi, nei sopralluoghi. Nella costruzione di un romanzo la descrizione è importante pur se ho mantenuto la mia asciuttezza».
In «Un giorno devi andare» lei fa leggere dei libri ai suoi personaggi. Erano funzionali al film o sono suoi autori di riferimento?
«Erano libri che si adattavano alla storia. Certo Attesa di Dio di Simone Weil che Jasmine Trinca legge in Amazzonia, mi ha molto colpito, lo amo, lo condivido ma non è un mio punto di svolta. Sono affascinato dalla Weil, la sua radicalità è illuminante, sento nel suo percorso un grado alto di autenticità. Mi conquistano i personaggi che si mettono in gioco in coerenza e in partecipazione alla vita. La storia è piena di queste figure passionali che anche nella contraddizione danno spazio all’evoluzione».
Allora quali sono gli autori che l’hanno fatta crescere ai quali si sente più affine? Da ragazzino chi leggeva?
«Da ragazzino condividevo di più il cortile con i miei amici. La mia attenzione è sempre stata rivolta più al cinema. Pasolini mi ha illuminato. Amo Vassalli, leggi un suo libro e hai voglia di fare un film. Terzani, un grande osservatore e raccontatore, parte dai luoghi e dalle persone, poi diventa filosofico e teologico. Coelho anche se è completamente diverso. Dicevo, più il cinema: Ken Loach, Fellini, Olmi, Truffaut. Effetto Notte mi ha avvicinato al cinema, la dimensione umana, le dinamiche del cinema così ben narrate. Io ragazzino, innamorato delle cose, ne ricavavo emozione pura».
Come è nata l’idea di «Noi due»?
«Dal desiderio di raccontare i giovani d’oggi e adesso ha anche un’ipotesi di film con intrecci storici. In un’epoca complicata ho scritto di relazioni affettive in difficoltà; due giovani che si amano e vanno in crisi da lontananza. I loro percorsi si fanno differenti. Lui, Carlo, si getta nella produttività e va a lavorare a Bologna, a progettare reggiseni pur essendo un architetto. Invece Alice, a Genova, si rivolge al sociale, all’attenzione all’altro, in una casa-famiglia. Due modelli che si confrontano, quello di Carlo che mostra i limiti, quello di Alice che si scontra con le difficoltà burocratiche. E se a Bologna vivo e a Genova ho fatto il servizio civile, dunque giocavo in casa, la partenza l’ho voluta all’Aquila che ha subito un doppio scempio, nel terremoto e nella non ricostruzione. Questi due ragazzi si sarebbero sposati e avrebbero vissuto all’Aquila se la casa non fosse caduta nel terremoto. Come due birilli sentimentalmente sballottati strada dopo strada si smarriscono e fanno fatica a riconoscersi. Ma la vita porta sempre occasioni di rilancio».
E scatta la solidarietà. Un valore che torna solo tra i disagiati? Più al Sud che al Nord?
«Al Sud l’abitudine al doversi arrangiare soccorre lo smarrimento, ed è maggiore la capacità di adattarsi al disagio fin troppo di casa. Spesso interviene la solidarietà. L’elemento della ricchezza porta siepi e recinzioni. Mia madre mi diceva che in campagna prima si passava ovunque. Con l’agio sono arrivati i confini, non più condivisione ma attenzione al proprio. Invece il rapporto con la condivisione è basilare, che non è beneficenza ma solidarietà, preoccuparsi dell’altro in modo naturale restituisce la dimensione affettiva. Oggi il desiderio d’identità si e trasferito nella proprietà».
Più la comunità o più l’individuo?
«C’è un passo del Vangelo che viene sempre ricordato e spesso male interpretato dai religiosi: “Ama il prossimo tuo come te stesso”. In quel “come” vive il senso della comunità, dello scambio, del rapporto con l’altro in una tensione non pietistica. Non l’elemosina cara ai cattolici ma una dimensione autentica di interesse reciproco, io ti dò, tu mi dai, senza distinzioni di casta, di genere, con i valori tutelati. Spesso però la comunità non ce la fa a causa di giochi troppo più grandi. Ma anche quelli finiscono prima o poi».
Lei dove preferisce scrivere e come scrive, d’impulso o di ragionamento?
«A casa o, meglio, vengo a Ostana, nella valle Occitana del Piemonte dove ho ambientato Il vento fa il suo giro. Il posto è bellissimo, una dimensione di riflessione. Qui scrivo e qui, con Fredo Valla, ho fatto una scuola di cinema. Ma non insegno telecamere bensì l’evoluzione di un’idea in racconto fino al cortometraggio. Un modo per mettere in evidenza le nostre urgenze, la riflessione su quanto ci circonda in relazione allo sviluppo della società. Un tempo si chiamava cinema d’autore».
E scrive?
«Di getto e di passione. Oppure sto ore tra sigarette e gastriti cercando lo snodo che non arriva, poi di botto ce l’ho. In realtà sono un curiosone, spio i gesti della gente al mercato, l’apertura con affaccio di una finestra, le proporzioni di un portico. Dentro ci vedo storie di persone che ho voglia di raccontare».