Barbara Romano, Libero 28/9/2014, 28 settembre 2014
«RENZI NON È L’UOMO GIUSTO PER GUIDARE LA SINISTRA»
[Intervista a Fabrizio Barca] –
Appesa al chiodo la grisaglia da ministro della Coesione territoriale del governo Monti, Fabrizio Barca si è messo a girare in lungo e in largo il Belpaese per rievangelizzare la base. Un tour senza camper e lontano dai riflettori, stile vecchia scuola Pci. Poi il ciclone Renzi ha spaccato tutto, dalla ditta diessina alla carriera di Enrico Letta. E del compagno B. non si è saputo più niente. Chi è oggi Fabrizio Barca nel Pd? «Uno sperimentatore che sta lavorando assieme a un bel gruppo di giovani e altre persone che non sono neanche tutte del Pd, pur essendo io caparbiamente di sinistra». Si riconosce nella leadership di Renzi? «Perbacco! Sennò non potrei far parte del Pd, che però non è il partito di Renzi». E di chi, sennò? «È ancora il Pd di Prodi e di Veltroni, con una direzione pletorica e uno statuto che prevede l’identità tra il candidato premier e il segretario, e che per questo deve essere cambiato». Cos’è che non va nel Pd? «È un partito monco. Serve a selezionare chi decide e ha dimostrato, sotto la guida di un leader, di funzionare come macchina per prendere voti. Ma non è in grado d’incontrare la fiducia della società e soprattutto dei giovani, che votano Renzi ma non partecipano alle sue scelte». La gente vota Renzi ma non si riconosce in lui? «Migliaia di giovani che appartengono all’associazionismo e al volontariato non considerano il Pd un interlocutore nei loro territori. Per questo ho dato il via al mio progetto». Che si chiama “Luoghi ideali” ed è dedicato proprio al rilancio dei circoli del Pd sparsi sul territorio. Perché lo ha fatto? «Quando ero ministro mi sono accorto che il Pd ha un’incredibile ramificazione a livello locale, ma non la usa. È assente nel territorio e non riesce a mobilitare i cittadini, che oggi aspettano fideisticamente le decisioni del leader». Renzi aveva convinto il 40% degli elettori che il “luogo ideale” sarebbe stato Palazzo Chigi, una volta che lui ci fosse arrivato. Si sono sbagliati tutti? «Quegli elettori avevano votato prima Bersani, alle Politiche, e poi Matteo». Veramente, “Matteo” ne ha avuti molti di più. «Infatti è stato bravo. Ma senza un partito sul territorio, chi governa non ce la fa». Anche lei accusa Renzi di cesarismo? «C’è bisogno di una gestione democratica, che oggi nel Pd non c’è. Mi auguro che a marzo 2015, quando tireremo le somme di questo progetto, il segretario sia aperto ai nostri suggerimenti». Quando vi siete sentiti l’ultima volta? «Quattro mesi fa». Sono successe tante cose da allora. Condivide l’editoriale di De Bortoli su Renzi? «Mi ha molto sorpreso il suo linguaggio. Mi sono chiesto se il governo non avesse toccato qualche nervo. Quando leggo articoli così sul Corriere, tendo a simpatizzare con chi è attaccato». Barca che simpatizza per Renzi è una notizia. «Ma no. Tutta l’operazione “sfasciacarrozze”, come si chiama...». Rottamazione. «Ecco, non mi viene perché non è proprio il mio linguaggio. Comunque io quella roba lì l’ho pure condivisa». Ma... «Ma non può essere fatta solo dal “Palazzo d’inverno”. Serve la democrazia. Hai bisogno che il popolo ti dia una mano. E per coinvolgerlo non basta che tu annunci la rivoluzione: devi mobilitarlo». In che modo? «In democrazia hanno inventato uno strumento, imperfetto, che si chiama partito e serve proprio ad accompagnare il cambiamento». A proposito di cambiamento: sul Jobs Act sta con Renzi o con la Camusso? «Io penso che l’ultima cosa da fare sia toccare di nuovo l’articolo 18. Lo dissi già quando ero ministro e votai contro la modifica di quell’articolo». Lei è un economista. Padoan è il ministro giusto all’Economia? «Conosco Pier Carlo da quando avevo 14 anni e lui ne aveva 18. Non posso esprimere un giudizio, sono troppo di parte». Giocavate a calcetto insieme? Frequentavate le stesse ragazze? «No, studiavamo». E ti pareva. Dove? «Ci riunivamo all’Istituto Gramsci con Pierangelo Garegnani ed altri a discutere delle teorie economiche di Piero Sraffa». Il suo primo ricordo del Pci? «Una manifestazione di solidarietà internazionale per la guerra del Vietnam a piazza del Popolo». Aveva già la tessera di partito? «No, perché ero a cavallo tra medie e ginnasio. La tessera l’ho presa tardissimo, a 19 anni, e l’ho avuta fino allo scioglimento del Pci». Suo padre è stato per 30 anni parlamentare del Pci e direttore dell’Unità. Lei sarà cresciuto sulle ginocchia di Enrico Berlinguer. «Non proprio. Una delle rare volte che venne da noi era per i 60 anni di mio padre. Berlinguer era una persona talmente cortese che fece il baciamano a tutti: anche a un uomo, Riccardo D’Amico, un caro antico amico, redattore capo di Paese Sera». Avrebbe fatto le stesse scelte politiche se non fosse stato il figlio di Luciano Barca? «Il Pci ha influito sulla mia vita sin dall’inizio. Sarei dovuto nascere a Mosca, dove mio padre doveva andare a fare il corrispondente dell’Unità. Ma all’ultimo momento Togliatti lo incaricò di prendere la direzione dell’Unità di Torino». Lei avrebbe avuto tutta un’altra vita. «Ogni tanto ci penso... Ma se fossi nato a Mosca non avrei mosso i primi passi nell’asilo ebraico di Torino». Perché i suoi la iscrissero all’asilo ebraico? «Perché le minoranze tendono a farsi forza l’una con l’altra: gli anni 50 erano tempi molto duri per i comunisti. E poi perché il mio nonno materno era ebreo, era stato in un campo di concentramento alla periferia di Roma e mia mamma era stata nascosta durante la guerra per sfuggire ai rastrellamenti». Suo papà l’avrà portata comunque in pellegrinaggio a Mosca. «Tutti i dirigenti comunisti facevano le vacanze in Unione Sovietica. La prima volta, sono andato a 8 anni a Kislovodsk, sulle montagne del Caucaso». In che modo il comunismo ha contribuito alla sua formazione? «Il “credo” con cui venivamo tirati su era: devi essere il più bravo di tutti, perché quando hai idee diverse devi essere inattaccabile per non essere massacrato». “Idee diverse” mica tanto. Lei ha studiato al liceo Mamiani, come tutti i rampolli della buona borghesia romana di sinistra. Era consapevole di essere un privilegiato? «Mio nonno era ferroviere e poi mio padre ha fatto il salto sociale. Il privilegio vero era quello di avere una montagna di libri a casa e dei genitori con cui parlare. Ma i miei non avevano un soldo, non c’era nemmeno l’automobile. Quando da Torino ci trasferimmo a Roma, nel 1957, andammo a vivere a casa di mia nonna e restammo lì per molti anni. Andai al Mamiani solo perché era lì vicino». Non potevate bussare a Botteghe Oscure? Lì i rubli non mancavano. «Il Pci che conoscevamo noi risparmiava pure sui panini. Negli anni ’60, quando mio padre andava nelle Marche a fare campagna elettorale, si trovava spesso sul treno Roma-Ancona con Forlani. Lo invidiava moltissimo perché, arrivati a una stazioncina, abbassava il finestrino e quelli del circolo Dc gli passavano il paccottiello con i panini. Mio padre non aveva questa fortuna». Com’è finito in Bankitalia un comunista figlio di comunisti? «Quando non imboccavi la via della politica, lo sbocco naturale era la Banca d’Italia che formava classi dirigenti. Lì mi ritrovai con Giampaolo Galli, che veniva dalla sinistra milanese, e altri che come me puntavano ad incidere sulla realtà dall’interno dell’amministrazione». Era meglio il Pci che pigliava soldi da Mosca o il Pd di Renzi, tutto hashtag e slide? «Sono due mondi agli antipodi, entrambi giusti. I finanziamenti di allora erano aiuti tra partiti fratelli che oggi ci appaiono folli, ma erano lo strumento di sopravvivenza per chi era discriminato nel mondo occidentale. Twitter è un strumento sacrosanto in un mondo nel quale, per esistere, devi penetrare la Rete». Sta facendo il globetrotter del Pd perché punta alla segreteria? «No». Se ci fossero le primarie domani non si candiderebbe? «Assolutamente no». E chi è l’uomo giusto per il Pd? «La mia speranza è che il suo nome non sia mai comparso su un giornale e che sia uno di quei mille personaggi incredibili che incontro in giro per l’Italia». Non Renzi, quindi. «No. Renzi è fatto per decidere, quindi per fare il sindaco di Firenze e il premier. Ma non è fatto per guidare il partito di sinistra».