Morya Longo, Il Sole 24 Ore 28/9/2014, 28 settembre 2014
CRISI GEOPOLITICHE, I MERCATI IGNORANO IL FORTE IMPATTO SULL’ECONOMIA REALE
A New York l’allarme lo ha lanciato qualche giorno fa Bill Bratton, capo della Polizia: «Stiamo attraversando il periodo più pericoloso dall’11 settembre di 13 anni fa». A Roma parole simili sono arrivate dal ministro dell’Interno, Angelino Alfano: «È indispensabile elevare il livello di guardia perché l’offensiva degli Stati Uniti e di altri alleati contro l’Is potrebbe innescare forme di reazione». Papa Francesco tempo fa ha addirittura parlato di «Terza guerra mondiale a pezzetti». Comunque la si guardi, una cosa è certa: il caos internazionale è forte. L’incertezza geopolitica è alle stelle. I focolai - dal Medio Oriente al Nord Africa, fino alla Russia - sono tanti. Eppure i mercati finanziari sembrano non mostrare grandi turbamenti. Negli ultimi giorni la volatilità è certamente aumentata e Wall Street ha abbandonato i record toccati la settimana scorsa, ma dai minimi di agosto ha comunque guadagnato il 3,96%. Le Borse europee da agosto sono addirittura cresciute del 7,07%. I mercati obbligazionari sono altrettanto tonici: persino i titoli di Stato dell’Iraq hanno attirato così tanti investitori nell’ultimo mese, che i rendimenti del titolo 2028 sono scesi dal 7,40% di agosto al 6,93%. Insomma: la "droga" monetaria, cioè l’abbondanza di liquidità pompata dalle banche centrali, appare più forte delle bombe. Il problema è che mentre i mercati finanziari fanno spallucce, tranne qualche sporadica giornata un po’ turbolenta, l’economia reale soffre il crescente rischio geopolitico: solo l’Italia, calcola la Sace, a causa dell’instabilità politica nata con la Primavera araba ha perso 16 miliardi di export nel periodo 2011-2013. E questo numero è destinato a salire.
Che il rischio geopolitico stia aumentando velocemente lo dicono gli indicatori che provano a calcolarlo. L’indice sulla violenza politica elaborato da Sace, che ha una scala da 1 (basso rischio) a 100 (massimo pericolo), è salito a livello mondiale da 38 del 2010 a 45 del 2014. Ma per i paesi più "caldi" il balzo è veramente eclatante: in Siria il rischio politico è passato da 61 a 97, in Tunisia da 40 a 65, in Ucraina da 43 a 67, in Egitto da 57 a 71, in Libia da 45 a 86. Anche un indicatore di Rbs sul rischio geopolitico lancia lo stesso messaggio: allarme rosso. Eppure, come detto, sui mercati finanziari non c’è grande tensione. «Il rischio geopolitico è sottostimato dai mercati», scriveva Alberto Gallo, economista di Rbs, già il 19 agosto. Da allora Wall Street ha aggiornato più volte il record storico. «È evidente che la liquidità iniettata dalle banche centrali è più forte sui mercati delle tensioni geopolitiche», osserva Alessandro Terzulli, economista di Sace.
In effetti a sostenere le Borse e i bond, nonostante i crescenti venti di guerra, è proprio l’abbondante liquidità pompata sui mercati dalle banche centrali. Calcola Patrick Artus, economista di Natixis, che anche quando la Fed smetterà di stampare dollari (verosimilmente ad ottobre), la base monetaria continuerà ad aumentare a livello mondiale di 1.550 miliardi di dollari l’anno grazie principalmente alle iniezioni della Bank of Japan e della Bce. Considerando che ormai i mercati finanziari sono dominati da computer e da algoritmi, che comprano e vendono azioni in base a complessi calcoli matematici e non in base alle emozioni umane o agli eventi bellici, si capisce perché ormai le guerre abbiano un impatto limitato sui mercati: a muovere gli indici, ormai, sono altri fattori.
Questo dimostra ancora una volta che la finanza si sta staccando irreparabilmente dalla realtà. Le tensioni geopolitiche, oltre a creare incertezza (che dovrebbe essere il nemico numero uno dei mercati), hanno infatti rilevanti ripercussioni economiche. E questo dovrebbe interessare eccome agli investitori: se le Borse non si impressionano di fronte ai focolai di guerra, almeno potrebbero provare qualche brivido davanti agli effetti congiunturali. Si pensi per esempio che in Russia e Ucraina tutti i Paesi dell’area euro hanno esportato nel 2013 rispettivamente 86,8 e 12,8 miliardi di beni: le tensioni del 2014 e la battaglia delle sanzioni ridurrà senza dubbio questi numeri. Questo avrà ripercussioni sulla già debole ripresa economica europea. Per non parlare del problema delle materie prime, dato che l’Europa - secondo i dati Wto - attinge il 30% del gas di cui ha bisogno da Mosca. Questo al mercato dovrebbe interessare. Come dovrebbe importare il fatto che - calcola Rbs - otto delle 10 maggiori banche operative in Russia sono europee. Eppure, nonostante qualche oscillazione momentanea per fattori geopolitici, i mercati non si scaldano affatto. Il Medio Oriente e il Nord Africa hanno un peso commerciale minore, ma non certo irrilevante. Nel 2013, secondo i dati Sace, l’export dei Paesi dell’area euro verso Libia, Egitto, Tunisia, Siria e Iraq è ammontato a oltre 33 miliardi: un terzo rispetto all’interscambio commerciale con Russia e Ucraina, ma pur sempre una cifre rilevante. Che tenderà a diminuire, considerando l’escalation delle tensioni di questi ultimi mesi. È certo difficile stimare ora il possibile danno economico, oltre a quello umano, della "terza guerra mondiale", come la chiama Papa Francesco. Una cosa è però certa: se l’Europa punta sull’export per rilanciare la ripresa economica, dato che la domanda interna è fiacca, questa escalation non fa bene. Ma ai mercati per ora interessa poco, forse consapevoli che più l’economia è debole più la "droga" monetaria aumenta.
Morya Longo, Il Sole 24 Ore 28/9/2014