Giuliana De Vivo, Il Giornale 28/9/2014, 28 settembre 2014
GUARRA DI SECESSIONE BARCELLONA-MADRID
Ora è battaglia vera. Non più a suon di dichiarazioni, ma a colpi di leggi e ricorsi. Il valore della Carta Costituzionale da un lato, il diritto a decidere dall’altro. Eccolo lo scontro tra Madrid e Barcellona: l’unità dello Stato spagnolo contapposta all’appartenenza a una regione economicamente forte, innamorata di quel suo idioma che, rispetto al castigliano, vira verso il francese.
Il presidente del governo catalano Artur Mas si è seduto al grande tavolo della sala del palazzo della Generalitat - intorno un silenzio solenne e la sua squadra di governo, in piedi - e ha vergato con decisione la sua firma sul decreto che convoca il referendum il 9 novembre. Ha mantenuto una promessa annunciata da giorni, ai tanti catalani che ci credono e al suo partito, Convergencia i Uniò, fiaccato dallo scandalo sui fondi all’estero che ha travolto uno dei padri spirituali, Jordi Pujol. «La Catalogna vuole decidere pacificamente e democraticamente il suo futuro politico. Vuole parlare, vuole essere ascoltata», ha detto Mas nel discorso ufficiale, prima di uscire dal palazzo e prendersi gli applausi della discreta folla sbandierante riunita lì fuori, in piazza Sant Jaume, quartiere gotico e cuore vecchio di Barcellona.
Forse ora Mariano Rajoy non è più «assolutamente tranquillo», come si era definito due giorni fa. Ieri, in viaggio verso Madrid dopo la visita istituzionale in Cina, il premier spagnolo non si è pronunciato. Ha parlato per lui la vice Soraya Sanz de Santamaria: «Nessun governo è al di sopra della legge e della volontà sovrana, che appartiene al popolo spagnolo». Rajoy e Mas si erano visti lo scorso 30 luglio alla Moncloa, per quella che i giornali iberici avevano annunciato come «l’ultima opportunità prima dell’impatto frontale». Fu un fallimento, il tema del referendum che il governo centrale non vuole concedere fu affrontato di striscio, quasi che nessuno dei due volesse prendere di petto la questione. Non si riuscì a trovare una quadra per quello che per la Catalogna - che da sola paga a Madrid tasse pari all’8 per cento del suo Pil regionale - è diventato un punto d’onore: il diritto ad autodeterminarsi.
Madrid al decreto di ieri era preparata, e aveva già studiato le contromosse: riunione straordinaria del Consiglio dei Ministri domani, per approvare il ricorso alla Corte Costituzionale. Se i giudici supremi considerano ammissibile il ricorso (un fatto quasi scontato, la Corte annullò già la «dichiarazione di sovranità» approvata in Catalogna due anni fa) la validità del decreto che convoca il referendum resterà sospesa per cinque mesi. Ma al fatidico «9-N» manca ormai poco più di un mese. I partiti indipendentisti hanno i volantini pronti e molte iniziative fissate. I più irriducibili, come Esquerra Republicana di Oriol Junqueras, hanno già fatto sapere che non intendono cambiare il calendario. Sono pronti alla disobbedienza. La linea di Mas finora è sembrata più cauta: se la campagna referendaria dovrà fermarsi, sarà solo perché lo impone il governo centrale. Che quindi si mostra autoritario. Del resto il presidente catalano lo ha fatto capire anche nell’intervento di ieri, quando ha detto che «sono intensi e profondi i legami con la Spagna, e questi legami restano, ma a nessuno può far paura che qualcuno esprima il suo parere con un voto in un’urna». Un’apertura, da parte del leader di Ciu c’è stata: «Siamo disponibili a trattare fino all’ultimo minuto con Madrid le condizioni per rendere possibile il voto». Il più furbo è stato Pedro Sanchez, leader dei socialisti, principale partito di opposizione al PP di Rajoy: ha detto nei giorni scorsi che è necessario un nuovo «patto costituzionale» che «attualizzi la questione delle autonomie».