Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 28 Domenica calendario

Barcellona sfida Madrid: “Voteremo” Mas convoca il referendum per l’indipendenza il 9 novembre

Barcellona sfida Madrid: “Voteremo” Mas convoca il referendum per l’indipendenza il 9 novembre. Rajoy: “Non si farà, è incostituzionale” Gian Antonio Orighi Il dado è tratto. Ieri mattina il presidente della Catalogna, Artur Mas, ha firmato il decreto che convoca un referendum consultivo per il 9 novembre, grazie a una legge regionale ad hoc approvata nel parlamentino di Barcellona il 19 settembre. Ma per la Costituzione spagnola sono legali solo le consultazioni popolari approvate (dopo il via libera del Senato) dal governo nazionale, e così il premier popolare Mariano Rajoy, con maggioranza assoluta alle Cortes, ha già annunciato che fermerà il referendum con un ricorso al Tribunale Costituzionale. In ogni caso l’inedito braccio di ferro tra «legittimità» (la legge regionale) e legalità (la Magna Carta) continuerà. Rischiando di offrire lo scenario peggiore di una «Crimea» nella Ue. «Vogliamo votare e ora abbiamo lo strumento per farlo - ha detto Mas dopo la firma -. La Catalogna vuole parlare, essere ascoltata e vuole andare alle urne». Il decreto elenca anche le due domande del referendum. La prima: «Vuole che la Catalogna sia uno Stato?». La seconda: «In caso affermativo, vuole che questo Stato sia indipendente?». Ieri Rajoy si trovava in visita ufficiale in Cina per cui la risposta del governo a Mas è arrivata dalla vice-premier, Soraya Sáenz de Santamaría, che poco prima aveva incassato anche l’appoggio incondizionato dei socialisti, il maggior partito di opposizione: «Abbiamo cominciato i passi per promuovere i ricorsi di incostituzionalità, per la legge e il referendum, con la richiesta di un rapporto del Consiglio di Stato - ha tuonato Santamaría -. Una volta emesso il rapporto, si riunirà il cdm (lunedì) e verrà presentato il ricorso all’Alta Corte, che sospenderà automaticamente la consultazione». La vice-premier ha anche sottolineato un particolare importante: il referendum, fino alla sua sospensione, probabilmente martedì, è perfettamente legale ed è già scattata, dal sito del governo catalano, la grancassa elettorale. «Ma una volta sospesa - ha spiegato Santamaría -, la legge non potrà produrre alcuna conseguenza. Una volta sospeso il referendum, non si può continuare a farlo. Senza legge non c’è democrazia e nessun governo è al di sopra della volontà sovrana di tutti gli spagnoli». A questo punto bisognerà vedere che cosa farà Mas. Il suo alleato esterno, Sinistra Repubblicana, chiama alla disobbedienza civile, ossia chiede di celebrare la consultazione popolare lo stesso sostituendo il censo elettorale, in mani statali, con il censo dei Comuni, e le organizzazioni indipendentiste già si preparano a scendere in piazza. Ma se Mas opterà per la legalità è più che probabile che convochi elezioni anticipate proprio per il 9 novembre (i sondaggi dicono che le vincerà il fronte separatista che oggi ha 74 deputati su 135). A questo punto il nuovo parlamentino farà una dichiarazione unilaterale d’indipendenza. Insomma, una replica di quello che ha fatto la Crimea con l’Ucraina. Se invece Mas sceglierà la «legittimità» commetterà i reati di «abuso di potere, disobbedienza e sedizione», rischiando fino a 15 anni di galera e il commissariamento del suo governo. Ma bisognerà vedere a chi obbediranno i 14 mila Mossos de Esquadra, la polizia regionale che dipende da lui. FRANCESCA PACI La piazza spinge il leader riluttante “Lasciaci scegliere” Attivisti e intellettuali: il modello è la Scozia Francesca Paci Racconta chi ieri era in Plaça de Sant Jaume a festeggiare la convocazione del referendum che quando il presidente Mas è uscito dal palazzo della Generalitat per salutare il popolo imbandierato il domani della Catalogna è apparso di colpo per quel che è, al di là delle ingenuità: aperto, elettrizzante, ma anche ignoto, insidioso e soprattutto senza alternativa. «In piazza eravamo circa 500, Mas non si è presentato in compagnia del suo vice Rigau o di qualche membro dell’esecutivo, ma con la moglie e il capo dell’opposizione di sinistra Esquerra Republicana, un messaggio chiaro per dire che davanti all’obiettivo finale non esistono differenze ideologiche», nota il 27enne Lorenzo Amat, informatico e indipendentista duro e puro. Il dado è tratto. Ma adesso? Pochi tra gli analisti credevano che il risultato scozzese depotenziasse le ambizioni catalane. L’incognita riguardava piuttosto Mas, politico navigato ma non avanguardista. «Il presidente non aveva chance» ragiona Jaume Ríos, anima del blog politico deba-t.org. Sebbene a Barcellona si respiri l’entusiasmo dei pionieri l’orizzonte non è sconfinato: «Da una parte c’è Esquerra Republicana (ER) che forte delle sue storiche credenziali indipendentiste ha cominciato a rosicchiare consensi alla formazione di Mas nelle elezioni del 2012 ed è oggi il primo partito con il 42% dei consensi. Dall’altro ci sono i problemi interni all’attuale maggioranza, Convergenza e Unione, che da due anni governa la regione con il sostegno esterno di ER controbilanciando i tagli dovuti alla crisi con la promessa di soddisfare la volontà popolare». Il rivoluzionario riluttante Mas deve fare i conti con una opposizione pronta a togliere l’appoggio al governo alla prima titubanza e con una piazza le cui aspettative si sono gonfiate a dismisura anche grazie alle campagne dell’Associazione Nazionale Catalana, che contro la linea dura di Madrid invoca la disobbedienza civile. Se non la Storia, i numeri stanno con i ribelli: per un 50% di separatisti e un 30% di unionisti c’è quell’80% della popolazione che chiede di votare, sì o no. «Fin qui è stato facile ma adesso bisogna pianificare un referendum, i seggi, le schede, un intero sistema elettorale che al netto dell’opposizione di Madrid deve essere organizzato al di fuori dell’amministrazione pubblica», nota il politologo della Pompeu Fabra University di Barcellona Andrea Noferini. Nel suo discorso il notoriamente moderato Mas è stato chiaro, la Catalogna si mette su un sentiero sconosciuto. Il governo centrale può reagire a colpi di decreti o, in linea teorica, sospendendo in modo cautelativo l’autonomia locale. Nessuno evoca lo spettro del 1936, con l’esercito a caccia di parlamentari nazionalisti, ma le prospettive non sono rosee. «Questa impasse si sblocca solo se Madrid concede qualcosa per far sfiatare la pentola a pressione catalana», afferma lo storico Emanuele Felice, docente all’Università Autonoma di Barcellona. L’onda indipendentista è cresciuta forse oltre le intenzioni dei politici, ma tant’è: «In Scozia il sentimento autonomista ha avuto uno sbocco. Qui la chiusura di Madrid sta irrigidendo le posizioni, se si arriva al 9 novembre in queste condizioni vinceranno di certo i sì». Rivelano degli insider che in realtà il partito di Mas vorrebbe trovare una mediazione, magari temporeggiando con la convocazione di elezioni anticipate. E non solo perché, come suggerisce il professor Ferran Brunet Cid, «l’indipendentismo catalano è sempre stato pacifico ma in un contesto di tensione può bastare un incidente per accendere la miccia». Il punto è che delle due anime di Convergenza e Unione la prima, liberale, si è riconvertita senza traumi dal nazionalismo all’indipendentismo ma la seconda, cattolica, resta legalista e aborre l’idea che da martedì potrebbe essere fuori legge. «Nulla è ancora scritto, in Spagna c’è la separazione dei poteri e nonostante il premier Rajoy ostenti sicurezza, non è detto che la Corte Costituzionale ci dia torto e bocci il referendum», confida il segretario del Diplocat, il ministero degli Esteri catalano, Albert Royo. La speranza è sempre l’ultima a morire, figurarsi nella terra amata da Orwell. Finora la strada barricadera di Mas è stata obbligata, specie dopo che venerdì il suo padrino politico Pujol ha ammesso l’infamia dei conti esteri. La piazza catalana trattiene il fiato. L’unica certezza è quella dell’attivista 21enne Amelie Guasp: «Niente più bandiere scozzesi, non sono scaramantica ma non si sa mai». ROBERTO TOSCANO La Spagna mette in gioco la sua identità Roberto Toscano Il 9 novembre i catalani saranno chiamati a pronunciarsi su un doppio quesito referendario: 1. Vuoi che la Catalogna sia uno Stato? e (in caso affermativo) 2. Vuoi che questo Stato sia indipendente? Già da questa formulazione cominciano ad emergere alcune peculiarità di questo referendum. A differenza dal Sì/No secco del referendum scozzese qui emerge un aspetto di notevole ambiguità. Certo, uno «Stato non indipendente» può esistere: è lo Stato che fa parte di una federazione. Ma gli indipendentisti catalani non prendono in considerazione il federalismo come ipotesi, tanto più che recenti sondaggi rivelano che, mentre sembra esistere una maggioranza a favore della separazione dallo Stato spagnolo, qualora esistesse la possibilità di optare per una soluzione federale gli indipendentisti verrebbero battuti dai federalisti. L’opzione federale, comunque, è del tutto teorica, non essendo prevista dalla vigente Costituzione spagnola. E’ vero che i socialisti si sono ultimamente schierati a favore di una riforma costituzionale di tipo federale, ma ormai è troppo tardi per fermare la deriva indipendentista con proposte di segno positivo. Il risultato del referendum del 9 novembre è comunque tutt’altro che scontato. Da un lato, a differenza dal referendum scozzese, la Costituzione spagnola non consente un referendum sull’autodeterminazione, e dopo la proclamazione ufficiale del referendum è subito scattato quell’iter che il governo aveva predisposto per contestarne la legalità: il Consiglio dei ministri demanderà la questione al Tribunale Costituzionale, che non potrà se non definire la consultazione catalana come incostituzionale. Senza un inquadramento costituzionale, il referendum potrebbe finire per risultare una sorta di sondaggio di opinione, politicamente significativo ma inconsistente dal punto di vista delle istituzioni. Il fronte indipendentista, inoltre, non è del tutto compatto, nemmeno all’interno della federazione CiU (Convergencia i Uniò), dove nella componente Unió (un partito moderato tutt’altro che barricadiero) esistono perplessità sulle probabili conseguenze dell’indipendenza. Qui il discorso si sposta sugli imprenditori catalani, su una borghesia che non è mai stata la principale forza propulsiva di un indipendentismo che vede invece in prima fila le élites politico-culturali. Non lo è mai stata non certo per simpatie centraliste o indulgenza verso la burocrazia dello Stato spagnolo, ma perché nutre fortissime preoccupazioni di fronte alla prospettiva di dovere operare entro uno spazio economico più ristretto, tanto che alcune imprese hanno fatto sapere che nel caso della proclamazione dell’indipendenza catalana si vedrebbero indotte a trasferire le loro sedi centrali da Barcellona a Madrid. Preoccupazioni che si aggravano quando si considera che non è certo da dare per scontato che la Catalogna possa uscire dalla Spagna e restare nell’Unione Europea: Madrid ha fatto sapere che si opporrebbe ad ogni automatismo, e che quindi la Catalogna indipendente sarebbe costretta a presentare la propria candidatura all’Unione. Ma come e perché si è arrivati a questo punto? I sentimenti catalanisti non sono certo nuovi, e trovano soprattutto le loro radici in una forte identità culturale, e soprattutto linguistica - un’identità duramente repressa negli anni del franchismo e che, nonostante la libertà recuperata nella Spagna democratica, ha continuato ad essere vissuta in chiave rivendicativa, quando non vittimistica. Come sempre succede nel caso dei nazionalismi, a questo si aggiunge una lettura unilaterale, quando non mitica, della storia, letta dai nazionalisti catalani in modo da far risaltare un filo ininterrotto d’identità nazionale conculcata dai prepotenti (e più arretrati) castigliani. Vi sono poi nel nazionalismo catalano accenti che noi definiremmo «leghisti», con l’immagine di una sorta di «Madrid ladrona» che succhia risorse da una Catalogna sviluppata e laboriosa che contribuisce ai conti nazionali più di quanto non ottenga dal centro. Gli errori commessi da Madrid - dove la «questione catalana» è stata spesso sottovalutata o gestita con scarsa sensibilità - hanno contribuito non poco a produrre l’attuale situazione. Quel Tribunale Costituzionale che è chiamato adesso a pronunciarsi sul referendum catalano avrebbe forse potuto evitarlo, se nel 2010 non avesse (per un riflesso condizionato di tipo centralista) dichiarato incostituzionale lo Statuto approvato dal parlamento catalano e da un successivo referendum popolare. Uno Statuto sostanzialmente autonomista dove si parlava di «nazione catalana» all’interno dello Stato spagnolo che oggi Madrid sarebbe ben lieta di poter accettare pur di evitare la prova del referendum. Una prova profondamente rischiosa per il futuro della Spagna. Anche se resi più cauti dagli anni atroci del terrorismo dell’Eta, i nazionalisti del Partito Nazionalista Basco – Pnv, oggi al governo della regione autonoma, stanno evidentemente aspettando il risultato del referendum catalano per riproporre la «questione basca» e hanno già fatto sapere che l’unico modo di evitare un referendum sull’autodeterminazione in Euzkadi sarà per Madrid quello di accettare una «sovranità condivisa»: una formula che fa pensare forse più a una confederazione che a una federazione. Ma un distacco della Catalogna sarebbe più grave per la Spagna di quello del Paese Basco. In questi ultimi mesi la televisione spagnola sta mostrando una lunga teleserie, «Isabel», dedicata agli anni dei «Re cattolici», Isabella di Castiglia e Ferdinando di Aragona (il regno il cui centro politico ed economico era la Catalogna). La Spagna è nata a fine del XV secolo da questa unione - un’unione la cui dissoluzione colpirebbe non solo la sua consistenza interna e il suo peso internazionale, ma la sua stessa identità originaria.