Antonio Monda, la Repubblica 28/9/2014; Emanuela Audisio, la Repubblica 28/9/2014, 28 settembre 2014
IO SONO ALI’ E HO UNA VITA DA FILM (DUE ARTICOLI)
Dopo il film di Michael Mann, e i documentari realizzati a partire dagli anni Settanta, il cinema racconta ancora una volta la vita di Mohammad Ali, e lo fa partendo da alcune registrazioni inedite di chiacchierate domestiche con le figlie ancora bambine. I am Ali, diretto da Clare Lewins, esce nelle sale americane in occasione del quarantesimo anniversario del leggendario incontro di Kinshasa nel quale il campione riconquistò il titolo mondiale contro George Foreman, ma è focalizzato soprattutto sulla sua personalità controversa, carismatica, come dicono in America “ larger than life”. Il documentario è incorniciato dalle conversazioni con le sue piccole, e il tono è sorprendentemente tenero: come quando lo si vede insegnare alla figlia la sua cantilena-rap, “vola come una farfalla, pungi come un’ape”, o confidarle di voler tornare a combattere («pensa che bello se riconquistassi il titolo per la quarta volta») e la bambina scoppia quasi a piangere, preoccupata per la salute del padre. E aveva tutte le ragioni per esserlo: Ali, all’epoca trentottenne, era già malato di Parkinson e gli incontri contro Larry Holmes e Trevor Berbick ebbero effetti devastanti sul suo fisico.
Amato e detestato in uguale misura, eroe per alcuni, traditore per altri, Ali è ancora oggi uno degli uomini più popolari del mondo. Se una delle mogli dichiara di continuare ad amarlo nonostante i ripetuti tradimenti, le registrazioni raccontano un uomo pieno di dolcezza, che si sforza di essere un buon padre, ma anche una persona consapevole di essere “il più grande”. In numerose occasioni chiede con insistenza alla figlia: «Come si chiama papà?». Chi sa di boxe non può non pensare a uno dei suoi incontri più celebri, che lo vide opporsi ad Ernie Terrell, un gigante imbattuto e dallo sguardo terrorizzante che lo aveva provocato chiamandolo Cassius Clay. Sul momento Ali disse solo «quello è il mio nome da schiavo», ma poi sul ring decise di impartirgli una punizione indelebile: lo ridicolizzò dall’alto della sua boxe velocissima e raffinata, e lo umiliò senza assestare mai il colpo del ko, in modo da prolungare al massimo la pena. Era pieno di furia, ma riuscì a trattenerla perché tutto il mondo doveva assistere a quella punizione, e colpì il gigante anche con gomitate e pugni scorretti, sfigurandone il volto. A ogni colpo urlava «come mi chiamo?».
A cominciare dalla duplice sfida con Sonny Liston, soprannominato l’Orso Cattivo, furono molti i suoi incontri leggendari, anche nel periodo del rientro e persino negli ultimi tempi, ma il ritiro della licenza successivo alla scelta di non combattere in Vietnam, ci ha privato dei suoi migliori anni pugilistici: gli incontri contro Cleveland Williams e Zora Folley, disputati prima che gli fosse tolto il titolo, sono tra i più perfetti mai disputati su un ring, più simili a una danza che a un gesto atletico. È di quel periodo la battuta «nessun Viet Cong mi ha mai chiamato nigger », e il nuovo documentario racconta come Ali abbia dichiarato ripetutamente che sarebbe stato in prima fila a difendere il suo paese, ma che respingeva l’idea di aggressione sul territorio altrui. Il gran rifiuto coincise con la conversione all’Islam, e con un attacco mediatico senza precedenti: la rivista Esquire decise di dedicargli una copertina che lo raffigurava nei panni di San Sebastiano ma, giunto sul set, Ali spiegò che non poteva impersonare un santo cristiano. Dovette intervenire il leader religioso Eijah Muhammad per rassicurarlo che si trattava di una scelta utile alla causa.
C’è una grande contraddizione tra la spavalderia manifestata sul ring e la sensibilità espressa in tante scelte quotidiane, tenute finora nascoste. All’inizio degli anni Settanta Ali divenne amico di un bambino bianco malato di leucemia, e gli promise che avrebbe sconfitto il cancro come lui Foreman. Quando il bambino si aggravò, Ali sospese gli allenamenti per andare a trovarlo, e il piccolo lo sorprese per la sua consapevolezza: «Non ce la farò, ma mi è andata ancora meglio: grazie alla tua amicizia il Signore mi terrà un posto speciale in Paradiso. Però sconfiggi per me Foreman, quella parte della promessa è ancora valida». A Kinshasa, in quello che venne definito “ the rumble in the jungle ”, Ali combattè anche per il suo giovane amico, e nel mare di contraddizioni che ha sempre caratterizzato la sua vita questo avvenne mentre il pubblico urlava a squarciagola “ Boma Ye!” (uccidilo). Con geniale abilità manipolatrice, era riuscito a conquistare la popolazione locale interpretando la parte dell’uomo fiero della propria libertà opposto a un pugile reazionario e animalesco: non si sapeva nulla di Foreman, in Zaire, al punto che molti, come anni fa raccontava un altro documentario, When We Were Kings, ritenevano fosse bianco. Il match di quarant’anni fa fu un capolavoro psicologico e pugilistico che si concluse con un ko nel quale l’imbattibile Foreman crollò al tappeto «come una maggiordomo di colore nell’apprendere una notizia tragica»: così scrisse Norman Mailer nel suo magnifico La Sfida . In quel match venne alla luce un ennesimo elemento contraddittorio: il campione che più ha fatto per difendere la dignità della gente di colore non ha esitato a insultare ripetutamente i rivali con epiteti razzisti, primo tra tutti Joe Frazier, che definiva in ogni occasione “gorilla”, “brutto” e “bestiale”. La rivalità tra i due, celebrata da tre match combattutissimi, si concluse con il cosiddetto “ thrilla in Manila” nel quale Ali ebbe il sopravvento, dopo una vittoria per ciascuno nei primi due match. Poche rivalità nella boxe hanno avuto una dimensione ugualmente epica, ma oggi scopriamo che dietro le risse pubbliche (una volta i due si malmenarono in diretta televisiva) c’era un grande rispetto che generò una profonda amicizia. È stato Ali, tredici anni fa, già gravemente malato e tremante, a insistere per portare a spalla la bara del rivale, uno dei pochi ad averlo sconfitto. Oggi nel documentario compare il figlio di Frazier, Marvis, ancora commosso a quel ricordo. E con lui c’è Mike Tyson — «Non ci sono parole per descriverlo: è stato lui il più grande di tutti, me compreso» — e George Foreman: «Non solo ho perso un incontro contro un grande campione, ma contro uno degli uomini più grandi mai esistiti».
L’America che lo ha detestato visceralmente trovò un momento di riconciliazione quando lo vide accendere il bracere olimpico di Atlanta, 1996, e quei momenti lunghissimi, nei quali non riusciva a tenere ferma la fiaccola, mostrarono più di ogni altra cosa la fragilità del “più grande”.
Antonio Monda
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È il campione più silenziato del mondo. Ma è l’unico ancora capace di parlare al mondo. L’unico che venga ascoltato, rispettato, ammirato. Anche se da quasi trent’anni ha gravi difficoltà di parola. Forse nemmeno serve che Ali aggiunga altro. Ha detto tutto, quando non andava di moda: contro il razzismo, contro le diseguaglianze, contro la guerra. E lo ha pagato carissimo: non esistevano ancora i presidenti alla Obama, e lui quando andava ad allenarsi sulla spiaggia di Miami veniva sempre arrestato. I neri non corrono sul lungomare dove i bianchi prendono il sole. Non c’è nessun atleta oggi che abbia la sua scioltezza di lingua (anche se lui purtroppo l’ha perduta), la sua fede, la sua popolarità, la sua generosità. Anche se emette pochi suoni, la bocca di Ali sembra sempre tuonare. Contro chi insiste a chiamarlo Cassius Clay, contro chi lo vuole arruolare in conflitti che non gli appartengono (allora era il Vietnam), contro chi pensa che i neri non abbiano diritti. I campioni miliardari di oggi non si mischiano con la politica, lui l’ha fatto. Le grandi star non girano più nei brutti posti da dove provengono, lui sì, non si è mai vergognato. Gli eroi sportivi attuali non dichiarano mai nulla nella paura di essere sgradevoli al loro pubblico, ai loro sponsor, a chi li rende così ricchi e famosi. LeBron James, Tiger Woods, Usain Bolt non fanno polemiche: si tengono lontani dalle leggi sui matrimoni gay, dalla riforma sanitaria, dai guasti all’ambiente, da chi per strada con una divisa spara a un ragazzo nero solo perché sospetto. Nessuno che dica: io per protesta non scendo più in campo. Ali lo ha fatto e per punizione gli hanno tolto il titolo mondiale. Ma lui non si è fatto imbavagliare. Non ha barattato la sua dignità per un contratto favoloso. Non è il suo silenzio malato oggi a far paura. Ma quello di chi sta zitto e gioca.
Emanuela Audisio