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 2014  settembre 28 Domenica calendario

ZEROCALCARE: PUNK, REBIBBIA E VIDEOGAME

A Rebibbia non ci capiti per caso. È l’ultima stazione della metro A di Roma e devi volerci andare. E la motivazione più forte per andare a Rebibbia è il carcere: ogni giorno i parenti dei detenuti si riversano dalla metropolitana per le visite. Zerocalcare, pseudonimo di Michele Rech, trent’anni, da sempre vive qui. E da qui, dice, non si muoverebbe mai. Zerocalcare è il fenomeno del fumetto italiano, il più famoso e al tempo stesso il più schivo, l’autore singolo che ha venduto di più nella storia con oltre duecentomila copie dei suoi quattro volumi pubblicati fino a oggi. È anche l’unico fumettista riuscito ad arrivare al primo posto della classifica di “varia” e il suo nuovo lavoro, Dimentica il mio nome, ha già bruciato in prenotazione quattromila copie dell’edizione limitata con copertina realizzata da Gipi («Lui è inarrivabile: quando inizia a disegnare ha in mente una cosa ma tu non puoi capire che cos’è, poi improvvisamente si materializza davanti a te. Ed è meravigliosa»). Scendono quasi tutti. Michele mi aspetta per andare a mangiare: «Andiamo dal kebabbaro sotto casa mia, praticamente è il luogo dove a Rebibbia succede tutto».
Tipo? «Mah, in realtà Rebibbia è un posto tranquillissimo e non succede mai niente, però l’anno scorso due tizi coi cani si sono rifiutati di pagare e hanno scatenato i molossi che hanno morso una che passava di lì e che poi si è rivelata essere la “Mantide di Cairo Montenotte”, la famosa Guerinoni, che stava tornando a Rebibbia da un permesso». Siamo già in un racconto di Zerocalcare. Poi entriamo in casa, il suo tempio, descritta in molte delle sue storie tra cui quella, divertentissima, in cui racconta: «Casa mia ha tre livelli di degrado, la cui valutazione è affida- ta a un’agenzia di rating specializzata». La realtà è molto meno agghiacciante. Solo quattro o cinque console da videogame per terra, coperte di polvere in un accrocchio di fili davanti al televisore. Per il resto ordine e disciplina regnano (quasi) sovrani («Vabbé, ho messo a posto, eh, perché sapevo che venivi... »). Su tutto troneggia quello che Michele considera l’unico vero lusso che si è concesso: una macchina per videogiochi da bar di quelle davanti alle quali negli anni ‘80 stazionavano orde di adolescenti che giocavano a Street Fighter. Gioco che ha segnato indelebilmente anche lui, tanto che uno dei personaggi delle sue storie ha il nome di Blanka, un bestione capelluto che nel videogame si trasformava in una palla e con una mossa speciale dava una scossa elettrica agli avversari: «La cosa bella è che dentro ci puoi scaricare tutti retrogame che vuoi». Per i non adepti, i cosiddetti “retrogame” sono appunto i vecchi giochi per quel tipo di macchine che oggi sopravvivono sulla rete per la gioia di tutti i geek della terra: fumettisti, blogger, programmatori, registi da Peter Jackson de Il signore degli anelli ai fratelli Wachowski, creatori della trilogia di Matrix. Anche se Michele, su tutti, venera Star Wars, come dimostrano poster, action figure e, soprattutto un superbo modellino del Millenium Falcon: «L’ho barattato in cambio di alcune tavole originali». Un affarone.
Com’è incominciato tutto?
«Con cinquecento copie de La profezia dell’armadillo. Che fu un’autoproduzione».
Cosa significa autoproduzione?
«Che portavo io le copie alle librerie a mano e le lasciavo in conto vendita. Tenevo i conti su dei fogliettini che poi perdevo. Un incubo. E mi hanno tolto nove punti della patente...».
Quanto copie hai venduto in questo modo?
«Sono state ristampate dieci volte: circa cinquemila copie».
Intanto la Profezia dell’armadillo cominciava a diventare un caso. A quel punto qualcuno se n’è accorto...
«Sì la casa editrice Bao si è fatta avanti e mi ha chiesto di pubblicare un nuovo libro ma quando hanno capito che io non ce la facevo più e che l’armadillo continuava a vendere hanno deciso di ristamparlo loro, e quella è stata la mia salvezza».
Poi l’anno dopo Ogni maledetto lunedì su due , la raccolta delle storie pubblicate sul tuo blog...
«Finì subito al primo posto su Amazon e, cosa per me incredibile, al primo posto della classifica Nielsen della “varia” ».
Quali sono state le tue influenze
più importanti?
«Topolino e Paperino: ho iniziato a disegnare da piccolissimo proprio cercando di copiare i personaggi di questi fumetti. Dragonball, di cui aspettavo l’uscita con il cuore in gola e Ken il guerriero . Poi sono passato al fumetto underground: Tank Girl di Jamie Hewlett e Brian The Brain di Miguel Angel Martin».
In famiglia qualcuno disegnava?
«Mia nonna, protagonista di Dimentica il mio nome , tra le incredibili cose che ha fatto nella sua vita era anche pittrice».
Nei tuoi racconti ci sono sempre affermazioni d’amore per Rebibbia, il quartiere in cui vivi. Come mai?
«È il posto in cui io sono cresciuto ma è sempre stato bistrattato. Per me affermare l’appartenenza a Rebibbia è un motivo d’orgoglio. Alcuni pensano che sia una sorta di Bronx mentre per me è un’isola felice tra San Francisco e Pescara».
Questo nuovo corposo volume di ben 240 pagine è la cosa a cui tieni di più in assoluto. Quanto tempo ci hai lavorato?
«Più di due anni anche se la lavorazione vera e propria è stata di circa otto mesi. Ho iniziato e poi l’ho interrotto perché non mi sentivo ancora pronto a metterlo giù. Dentro ci sono alcune cose autobiografiche e altre no, ma non rivelerò mai qual è la parte vera e quale quella di fantasia. Si apre con la morte di mia nonna e ripercorre alcuni episodi della mia vita, insieme all’attraversamento del lutto da parte di mia madre. In questo processo vengono a galla dei fatti che mi erano stati taciuti e che non avrei mai potuto immaginare».
Che importanza hanno avuto i centri sociali e la musica punk nella tua formazione?
«Fondamentale. I centri sociali sono posti in cui io sto bene e che cercano di fare qualcosa di positivo in una realtà sempre più difficile. Ho iniziato a disegnare facendo locandine di concerti per loro da quando avevo sedici anni. Il punk è parte della mia vita, corrente “straight edge”, il che significa che non bevo, non fumo e non mi drogo».
E la scuola è stata importante?
«Non molto: nonostante gli sforzi dei miei insegnanti non sono mai riuscito a imparare l’anatomia. L’unica cosa che mi ha insegnato è una certa disciplina: se sei completamente autodidatta e non sai disegnare un cavallo finirà che non lo disegnerai mai. Lì sei obbligato, ma non sempre funziona».
Cinque graphic novel in meno di quattro anni, una storia nuova sul blog ogni quindici giorni per non parlare delle varie collaborazioni e dell’enorme quantità di presentazioni: ha lavorato moltissimo in questi anni...
«Perché ho sempre pensato, e lo penso tuttora, che non sarebbe durata. Il mio è, inevitabilmente, un fenomeno destinato a sgonfiarsi: probabilmente l’unico motivo per cui verrò ricordato è “Ah, sì, Zerocalcare, quello che ha venduto un sacco di fumetti per un breve periodo senza avere nemmeno una vaga idea di cosa fosse l’anatomia”».