Giuliano Foschini e Fabio Tonacci, la Repubblica 27/9/2014, 27 settembre 2014
INDIRIZZI SBAGLIATI E FAX ROTTI QUEI TRUCCHI DEGLI ATLETI PER FARSI BEFFE DEI CONTROLLI
ROMA.
Racines, mille metri di altitudine sulle Alpi a cavallo con l’Austria, poco più di 4mila anime, a occhio non dev’essere un luogo assai movimentato. Eppure Alex Schwazer nella sua baita prendeva sonno solo con i tappi nelle orecchie. O almeno, questo è quello che ha raccontato agli ispettori del Coni-Nado, l’agenzia antidoping del Comitato Olimpico, per giustificare perché non avesse aperto loro la porta durante uno controllo a sorpresa. «Non ho sentito, ero a letto con i tappi». Incredibilmente creduto. Stesso destino anche per le altre centinaia di atleti italiani che prima delle Olimpiadi di Londra - ricostruiscono i carabineri del Ros e del Nas nell’inchiesta di Bolzano - eludevano in un modo o nell’altro le procedure stabilite dalla Wada senza subire alcuna conseguenza.
I tappi nelle orecchie in uno dei posti più silenziosi del pianeta sono probabilmente la scusa più incredibile partorita da uno che allora era uno dei nostri atleti di punta. Ma è vasto il campionario delle furbate che gli investigatori hanno elencato nella loro informativa depositata agli atti. Andrew Howe, il velocista e lunghista azzurro, per ben cinque volte non comunica dove si trova per gli allenamenti. Dovrebbe essere squalificato e invece il Coni lo grazia. Perché? La madre di Howe, Renée Felton, spiegò alla Fidal che Andrew non aveva potuto comunicare i suoi spostamenti perché nel weekend in questione non gli funzionava l’account di Internet. Il saltatore in alto Gianluca Tamberi, raggiunto da una mail di sollecito per le mancate notifiche: «Mi spiace, l’avete mandata all’indirizzo di mio padre».
Il velocista azzurro Roberto Donati era gran cliente dei medici vietati: «Dal 2006 in poi, frequenta tutti e tre i più noti dottori indagati negli ultimi anni per vicende di doping: Francesco Conconi, Michele Ferrari e Carlo Santuccione», sostiene la procura. E il Coni che fa? Niente, chiaramente. Anzi si fa prendere in giro. Per un mese e mezzo l’atleta sparisce, senza consegnare il form con la reperibilità e quando riappare, nessuno ha niente da dire. C’è poi chi prende tempo sostenendo di «avere mandato il form per fax», e il fax non esiste. E chi lamenta «che si sia persa la mail». Altri usano il trucchetto di mandare la comunicazione di modifica del calendario della reperibilità di notte, a uffici chiusi. Insomma, piccolezze che raccontano il grottesco della gestione antidoping italiano. Un grottesco che però diventa pauroso quando si leggono i numeri. Prima delle Olimpiadi di Londra «sono stati svolti sugli atleti della Fidal 273 controlli antidoping, di questi solo 9 erano mirati sui singoli» dicono i Carabinieri. Meno di dieci verifiche a sorpresa, da parte del «sistema amico» del Coni, di cui «non c’era motivo di preoccuparsi». Infatti non si preoccupavano. Schwazer «era considerato un atleta a rischio» già dal 2011, il Coni non aveva mai fatto nulla e se non fosse intervenuta la Wada lo avremmo visto gareggiare pieno di Epo alle Olimpiadi del 2012. Lo stesso dicasi del mezzofondista Haidane. «L’atleta italo-marocchino era stato segnalato a partire dal 5 luglio 2012» si legge nell’informativa, «inseguito per mesi da Fidal e Coni per cercare di fargli compilare i whereabouts (il form della reperibilità, ndr). Verrà trovato positivo a uno stimolante solo nel 2014, mentre le evidenze mostrerebbero forti sospetti di uso di Epo». Resta la domanda. Perché è accaduto tutto questo? Perché al Coni-Nado si sono bevuti la storia dei tappi nelle orecchie, della mancata connessione Internet e di tutte le altre debolissime scuse senza battere ciglio? Una spiegazione la si trova, nero su bianco, nelle carte di Bolzano. E suona così: «Il Coni prima chiede la sponda politica per mantenere il controllo sull’antidoping che conta, poi monta una struttura solo apparentemente indipendente per causarne il peggior funzionamento possibile. È un quadro inquietante ma plausibile».
Giuliano Foschini e Fabio Tonacci, la Repubblica 27/9/2014