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 2014  settembre 27 Sabato calendario

DALL’UNITÀ DI VELTRONI AL GIORNALE DEI DETENUTI

Dalla finestra del suo soggiorno oltre alle torri della nuova Milano si fatica a riconoscere nel simil grattacielo d’acciaio quella che un tempo fu la storica sede in via Volturno della Federazione del Pci. Ma non è solo il quartiere Isola che è cambiato nel mondo di Susanna Ripamonti.
Figlia di un critico teatrale de «L’Avanti» il quotidiano del fu Psi, militante del Pci ai tempi di Berlinguer («Ma non presi più la tessera dopo la Bolognina»), funzionaria a Modena del partito Susanna con sua gran delusione («Lo vissi come un fallimento, mi piaceva molto far politica») venne spedita a «L’Unità». Assunta da Emanuele Macaluso, promossa inviata da Veltroni, la cronista giudiziaria Ripamonti seguì l’inchiesta Mani Pulite con relativa fine di ogni illusione su una sinistra più pulita («Conosci il compagno G?», chiese a uno sconosciuto nel corridoio della Procura ignorando che quell’uomo era Primo Greganti in attesa di essere interrogato da Di Pietro). Crisi del quotidiano fondato da Gramsci, crisi della politica. Ripamonti ricorda: «Approfittando di una finestra per i prepensionamenti me ne sono andata. Non volevo più vivere l’ennesimo stato di crisi». Passano gli anni e «L’Unità» come altri fogli di partito non esce più; la compagna S. senza i birignao delle star del giornalismo ha saputo reinventarsi. Da quel 2007 - lavora gratis, ovvio - come direttore di «carteBollate», il periodico assai ben fatto dei detenuti di Milano-Bollate, la casa di reclusione modello nel pluricondannato nostro sistema penitenziario (a Bollate il 40% dei 1200 detenuti si mantiene lavorando; polizia penitenziaria e 200 volontari assicurano corsi e attività preziose per il recupero).
Nel 2012 proprio nella redazione di «carteBollate», direttrice Ripamonti, con l’aiuto degli esperti dello sportello giuridico del carcere come il prof Valerio Onida è nata la «Carta di Milano»: un protocollo deontologico che, su modello di quelli che tutelano soggetti come i minori e i malati di mente, detta ai giornalisti le 9 regole su come trattare le notizie sulle carceri, le persone in esecuzione penale, detenuti ed ex detenuti. Da far attenzione a evitare di creare ingiustificati allarmi sociali che rendono più difficile i percorsi di reinserimento al diritto all’oblio, dalla tutela dei familiari dei condannati all’uso di termini corretti. Approvata nel 2013 dal consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti la «Carta di Milano» ormai è materia di studio ai corsi obbligatori d’aggiornamento della categoria. Una bella soddisfazione per la redazione di «carteBollate». Per Susanna che nei giorni scorsi a Mantova, a margine del Festival della letteratura, ha partecipato a un incontro proprio sulla «Carta di Milano» un bel passo avanti nella sua speranza di costruire una cultura del carcere. Sono ben 70 i giornali che vengono fatti dietro le sbarre dove sono vietati Internet e cellulari; hanno qualità assai diverse e testate suggestive: «Ristretti orizzonti» si chiama quello della Casa di reclusione di Padova, «La Gazza Ladra» a Novara, «Sosta forzata» a Piacenza. C’è anche una Federazione nazionale informazione dal e sul carcere, presieduta da Ornella Favero. Voci troppo flebili. «La “Carta di Milano”», dice Ripamonti, «è nata per combattere le troppe omissioni e distorsioni. E’ una notizia il detenuto in permesso che fa una rapina ma non storie come quella di Enrico Lazzara che, utilizzando i permessi, ha creato la tipografia dove stampiamo il nostro giornale e dove lavorano 6 detenuti. E’ un solo esempio,ma i dati sono incontestabili: la recidiva scende da una media del 70% al 28% tra chi usufruisce di misure alternative o di benefici penitenziari». Sfoglio il suo giornale con lo scoop di Santino Nardi, detenuto in articolo 21 al lavoro alla Sacra Famiglia di Cesano Boscone. Titolo: «Il mio compagno di lavoro Mister B». A proposito d’editori come vi finanziate? Susanna sorride: «Abbiamo l’appalto delle foto. I detenuti amano farsi fotografare anche più volte al mese per spedire le immagini ai loro cari. Noi li fotografiamo. Stampiamo. E loro ci pagano».
Chiara Beria Di Argentine, La Stampa 27/9/2014