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 2014  settembre 27 Sabato calendario

IL TRISTE CREPUSCOLO DELLE TOGHE CHE TRASLOCANO NELLA POLITICA

Chissà se la non breve e non sempre gloriosa stagione della magistratura in politica si è chiusa ieri, con la scamiciata reazione di Luigi De Magistris. Dopo di lui di magistrati ne arriveranno ancora, come ne sono arrivati prima, ma con una missione in meno. La missione è quella cui accennò con esibita ritrosia Francesco Saverio Borrelli, il leggendario procuratore del pool Mani pulite, al Corriere della Sera del primo maggio 1994. Borrelli era nel suo ufficio e dietro di lui, all’impiedi, c’erano i pm Piercamillo Davigo e Antonio Di Pietro. «Dovrebbe accadere un cataclisma per cui resta in piedi solo il presidente della Repubblica che chiama a raccolta gli uomini della legge (...) A un appello del genere si potrebbe rispondere». Il cataclisma in realtà era in corso: la Prima repubblica era venuta già a colpi d’avvisi di garanzia e di lì a pochi mesi il nuovo presidente del Consiglio, Silvio Berlusconi, avrebbe ricevuto a Napoli l’invito a comparire. Borrelli non si sa, ma Di Pietro era già persuaso, il giorno di quell’intervista, di essere l’uomo giusto per salvare l’Italia. Si sarebbe spogliato della toga con plateale gesto il 6 dicembre di quell’anno, e per motivi illustrati in maniera sempre un po’ nebulosa. Era più popolare di Pablito Rossi nell’82 e tutti se lo contendevano: qui si riesce giusto a ricordare che Berlusconi gli offrì il ministero dell’Interno e una spettacolare telefonata con Carlo De Benedetti (abbiamo tanti amici in comune, si dicono, e uno di questi è Romano Prodi). Alla fine, perso l’attimo, Di Pietro si candidò col Pds al Mugello ed entrò al Senato. Al massimo avrebbe fatto il ministro.
L’ultimo convinto di traslocare in politica una fama abbastanza ipertrofica di eroe dell’etica è stato Antonio Ingroia, il pm della trattativa Stato-mafia, l’uomo che lavorò al fianco di Giovanni Falcone; ma non ce n’eravamo accorti ed eravamo già fuori tempo massimo: nella lista Rivoluzione civile c’erano tutti, lui e Di Pietro, naturalmente De Magistris, un fiancheggiatore storico come Leoluca Orlando. Risultato, due e venticinque per cento, quorum orrendamente fallito. Eppure De Magistris aveva da poco conquistato il comune di Napoli illudendo un certo mondo che la rettitudine delle toghe - spesso autoattribuita - avrebbe drizzato il legno storto della politica. Invece no, i caposaldi di quel rapsodico movimento sono dispersi nelle periferie delle cronache, Di Pietro cura l’orto di Montenero e rilascia dichiarazioni non del tutto illuminanti sulle questioni della giustizia, Ingroia dice la sua su Cosa nostra intanto che il Consiglio superiore della magistratura dice la sua su di lui («comportamenti connotati da oggettiva gravità...»).
E poi ci sono gli altri, gente che in questo paese ha fatto la storia come Luciano Violante, che aveva introdotto gli anni Novanta dalla commissione Antimafia, e da lì gettò le basi per il processo a Giulio Andreotti: era un aperitivo, ma oggi Violante non lo vuole più nessuno e non riesce a racimolare i voti per entrare in Corte costituzionale; intanto è morto il povero Gerardo D’Ambrosio, il più misurato di quel pool Mani pulite, e misurato lo fu anche nel Palazzo. L’unico che abbia ancora un ruolo è l’ex sindaco di Bari (ora candidato alle primarie per la presidenza della Puglia), Michele Emiliano, sebbene soffra ogni dolore per essere stato messo ai margini del Pd di Matteo Renzi. Non abbiamo dimenticato Piero Grasso, uno che prima di diventare presidente del Senato ambiva giusto a una commissione sulle Stragi impunite, senza attribuirsi salvifici superpoteri da sfoderare contro il Male. Che poi, visto da qui, oggi, il Male è stato tratteggiato per vent’anni col profilo di Silvio Berlusconi: declinante lui declinano i nemici, compresi quelli formidabili di procura. Si comincia persino a parlare di riforma della giustizia con qualche speranza di veder la ciccia. Tema indifferibile, ha detto il presidente della Repubblica: guarda un po’ la storia, lo stesso che da presidente della Camera, nel ’94, organizzò l’abolizione dell’immunità parlamentare nella notte della resa.
Mattia Feltri, La Stampa 27/9/2014