Tino Oldani, ItaliaOggi 27/9/2014, 27 settembre 2014
BERLINO ATTACCA DRAGHI PERCHÉ STA CAMBIANDO MUSICA FINORA 2.500 MILIARDI ALLE BANCHE, MA ZERO AI DISOCCUPATI
L’attacco concentrico che il ministro tedesco delle Finanze, Wolfgang Schauble, e il presidente della Bundesbank, Jens Weidman, hanno lanciato contro le decisioni più recenti della Bce sono la conferma più eloquente di ciò che ho segnalato ieri: avendo deciso di combattere anche la disoccupazione, che a differenza dell’inflazione non rientra nel mandato della Bce, Mario Draghi ha compiuto uno strappo istituzionale che potrebbe imprimere una svolta storica alla politica della Banca centrale europea. Una svolta da salutare con favore.
Da quando è iniziata la crisi mondiale, la Bce si è preoccupata soltanto di salvare le banche, a cominciare da quelle too big to fail (troppo grandi per fallire), nonostante fossero state proprio le speculazioni incontrollate di queste ultime, a causare il disastro. Praticamente nulla, invece, la Bce ha fatto finora per limitare i danni sociali provocati dalla crisi. Anzi, partecipando alla governance europea che ha imposto le politiche di austerità, ha contribuito alla riduzione del welfare (sanità, pensioni, istruzione) e all’aumento della disoccupazione in Europa.
Bastano poche cifre per fotografare questa dicotomia. Potendo creare denaro dal nulla, la Bce ha capitalizzato nel 2012 il Fondo Salva-Stati (in realtà salva-banche) con 500 miliardi di euro, e sempre nel 2012 ha ricapitalizzato le grandi banche con altri duemila euro, a copertura delle loro necessità. Da ultimo, ha messo a disposizione del sistema bancario europeo altri 400 miliardi a tasso di poco sopra lo zero, da destinare all’acquisto di pacchetti di crediti concessi alle imprese e alle famiglie per nuovi investimenti. Un’iniziativa che si è rivelata deludente, con appena 82,6 miliardi ritirati sui primi 150 offerti, a conferma della gravità della crisi, diventata un mix di recessione e deflazione, in cui investimenti e consumi vengono rinviati di continuo, in un calando che potrebbe durare molti anni. Al dunque, una politica monetaria che non solo ha mancato l’obiettivo dell’inflazione al 2% (l’unico previsto dal mandato della Bce), ma anche quello di una coesione sociale minima, poiché nel frattempo i disoccupati in Europa sono saliti a più di 25 milioni di unità. Un doppio insuccesso.
Davanti a questo scenario disastroso, Draghi ha deciso di cambiare politica, e nell’intervista di domenica scorsa alla tv francese Europe1, per la prima volta ha posto l’accento sulla necessità di combattere la disoccupazione, definita «primo nemico dell’Europa», con maggiori investimenti sia privati che pubblici. E poiché gli investimenti privati non ripartono, come ha confermato la scarsa richiesta di prestiti sui 150 miliardi offerti in regalo dalla Bce, Draghi ha fatto capire che la sua prossima mossa potrebbe essere indirizzata a spingere gli investimenti pubblici, quelli degli Stati, acquistandone direttamente i titoli: una manovra che lo Statuto della Bce non prevede e che finora è stata sempre vietata, poiché la Banca centrale europea può creare denaro dal nulla e prestarlo alle banche, ma non ai governi dell’eurozona, come fanno invece le altre banche centrali (in Usa, Gran Bretagna e Giappone) nei confronti dei rispettivi governi.
Per impedire che Draghi arrivi a mettere in atto una simile manovra, Schauble e Weidman hanno immediatamente lanciato durissimi «nein» contro il più modesto acquisto, già deciso a maggioranza dalla Bce, di pacchetti di crediti bancari per le imprese e le famiglie. Con la miopia tipica dei forsennati fautori dell’austerità, i tedeschi vogliono impedire a Draghi di mettere in campo il cosiddetto «supercannone» della Bce, un vero e proprio «quantitative easing»europeo, sull’esempio degli Stati Uniti, dove ha dato risultati positivi per la ripresa. Vale a dire un’iniezione di denaro senza precedenti nelle casse degli Stati dell’eurozona perché rilancino gli investimenti con la spesa pubblica, anche in deficit, cosa che per i tedeschi sarebbe peggio di un sacrilegio.
Sarebbe un secondo strappo istituzionale di Draghi, dopo quello sulla disoccupazione. Nessuno può prevedere se la Bce lo farà, né come. Ma se ciò avvenisse, non solo rivoluzionerebbe la governance europea (sarebbe ora!), ma rovescerebbe anche il rapporto di forza tra le due principali teorie economiche che oggi si contrappongono in Europa. Finora hanno vinto i neoliberisti in salsa tedesca, per cui il buon andamento dell’economia richiede un bilancio dello Stato in pareggio (Fiscal Compact), lasciando fare al mercato per il resto. Per contro, i seguaci di Keynes sostengono che il mercato non può farcela da solo a superare le crisi più gravi, ma servono più spesa pubblica e meno tasse, nella convinzione che la spesa spingerà gli investimenti e la ripresa aiuterà poi a riportare i bilanci pubblici in pareggio. Non solo: Keynes sosteneva che la spesa pubblica «giusta» si può misurare soprattutto in base al livello dell’occupazione: più quest’ultima si avvicina al pieno impiego, più equa sul piano sociale è l’azione del governo. Un insegnamento che Federico Caffè aveva inculcato nei suoi allievi dell’università di Roma. E Draghi, laureatosi con Caffè, sembrava averlo dimenticato, almeno fino a domenica scorsa.
Tino Oldani, ItaliaOggi 27/9/2014