Giorgio Ponziano, ItaliaOggi 27/9/2014, 27 settembre 2014
GIUSTIZIA CIVILE AMMAZZA-IMPRESE
È finito l’idillio tra Guido Barilla e il sindaco grillino di Parma, Federico Pizzarotti? Sembra di sì, per colpa di una licenza edilizia. L’azienda l’ha chiesta e il sindaco l’ha negata, allora il gruppo leader nella produzione di pasta ha presentato ricorso al tribunale amministrativo, reclamando la licenza ma anche 100 mila euro di danni per il ritardo.
Pizzarotti, alle prese col bilancio indebitato, non l’ha presa bene, anche se, in verità, non è tutta colpa sua poiché la vicenda ha le sue radici nell’amministrazione precedente e nelle lungaggini della burocrazia, di cui tanto si parla ma senza riuscire a tagliare i suoi artigli.
Un edificio della Barilla venne demolito perché si trovava lungo il tracciato della costruenda linea ferroviaria dell’alta velocità ma con l’impegno, sulla base di una convenzione tra Fs e Comuni, che sarebbe stata autorizzata la sua ricostruzione in un’altra area. Nel 2010 la Barilla ha presentato la richiesta di licenza edilizia per ricostruire il suo edificio ma, nonostante il gruppo sia assai potente a livello locale, la pratica è rimasta dormiente nei cassetti del Comune per ben tre anni.
Cambia la giunta (nel maggio 2012 arrivano, a sorpresa, i 5stelle con alla testa Pizzarotti) ma nulla cambia, niente si muove. Poi, dopo l’ennesimo scossone di chi riteneva negati i propri diritti, trascorsi oltre tre anni senza una risposta, il sindaco firma che la licenza viene negata per problemi di destinazione edilizia di quell’area. Ci sono voluti oltre i mille giorni di Renzi per prendere una decisione, per di più negativa.
A questo punto Guido Barilla si è rivolto al tribunale amministrativo chiedendo una sospensiva del provvedimento comunale che non è stata accolta e in attesa della decisione nel merito (chissà quando) ha deciso di andare giù pesante per le casse comunali e ha chiesto 100 mila euro di danni per tutto questo tempo passato invano. Una delle tante storie di ordinaria burocrazia (e di eccessiva lentezza giudiziaria).
Barilla si può consolare con quanto è accaduto a un suo concittadino, Pier Luigi Torelli, tra i grandi produttori di parmigiano-reggiano. La sua storia incomincia nel febbraio 1989 e finisce nell’ottobre 2013. Ha impiegato 24 anni per arrivare in fondo a quella che si è rivelata un’avventura. Aveva chiesto una licenza edilizia al comune di Parma per ampliare la sua attività di stagionatura del formaggio, il che significa più occupazione e più reddito nel territorio. Ha bussato per ben 7 anni agli uffici comunali ottenendo la stessa risposta: vedremo. Alla fine, esasperato, ha minacciato di chiudere ed emigrare. Così è riuscito ad ottenere il sospirato placet per costruire il capannone.
Però sette anni sono lunghi e la rabbia è tanta. Allora ha deciso di rivolgersi al Tar per chiedere i danni che, a suo giudizio, la lentocrazia gli ha procurato: 200mila euro per maggiori oneri e costi di costruzione, 1,8 milioni per mancati ricavi dall’attività di stagionatura, 150mila euro per la perdita di clientela e danno all’immagine. Ha presentato il ricorso nel 2000. L’iter giudiziario è finito nell’ottobre 2013 col Consiglio di Stato che ha sentenziato la “grave negligenza o imperizia degli uffici dell’amministrazione comunale” e gli ha concesso l’indennizzo, però decurtato a 414 mila euro, che il Comune (cioè i cittadini) ha pagato (mentre nessun politico o burocrate ne ha risposto).
Ma l’imprenditore del formaggio può ritenersi fortunato. Un suo collega di Monsummano (Pistoia) ha incominciato un’azione giudiziaria quando aveva 48 anni, ora ne ha 72 e ancora aspetta. Si tratta di una causa di comproprietà per il 50% di un’azienda della Valdinievole. Nei primi dieci anni sono cambiati tre giudici e ogni volta si è ricominciato quasi da capo, poi è giunta una prima sentenza (favorevole). Arriviamo al 2009: il giudice (a Monsummano, sezione distaccata del tribunale di Pistoia) rinvia la causa a marzo dell’anno successivo. Ma a quella data vi è un nuovo magistrato, che rinvia l’udienza al 2011. Cambia ancora il giudice e l’udienza slitta al 2012, finalmente nel 2013 inizia la discussione che poi viene aggiornata a fine 2014. «Ma forse non ci sarà- spiega l’imprenditore- perché la sezione del tribunale è tra quelle che saranno soppresse, quindi il fascicolo andrà a Pistoia e se ne riparlerà chissà quando, intanto io ho compiuto 72 anni».
C’è anche chi è fallito per colpa della lentezza giudiziaria. La sfortunata azienda si chiama Imar, sede a Calcinato (Brescia). Il bello (o meglio il brutto) è che non è stata la sleale concorrenza cinese bensì quella (altrettanto sleale) tedesca a colpire, con la giustizia incapace di tutelare. Con buona pace dei tanti convegni sull’innovazione. Severino Corsini, a capo della Imar, aveva creduto e puntato sull’innovazione: impianto di riscaldamento di dimensioni ridotte, a incasso, per produrre acqua calda da diverse fonti di energia compresa quella solare. Un successo commerciale da 250 impianti installati al mese. L’azienda ha 150 dipendenti e 10 brevetti, sta andando alla grande. Ma sul mercato arriva un concorrente tedesco con un prodotto simile al suo e a costi inferiori perché palesemente copiato. Parte subito la richiesta al giudice di bloccare il prodotto taroccato. La sentenza (del tribunale di Milano) arriva 6 anni dopo, quando ormai le quote di mercato sono state perse e l’azienda è in crisi. «Se questo sistema non offre una protezione adeguata – si sfoga Severino Corsini - è inutile lamentarsi che in Italia le aziende non investano a sufficienza in ricerca e tecnologia».
Oltre al danno la beffa: il magistrato riconosce la validità del brevetto europeo dell’azienda, proibisce alla società tedesca di continuare a vendere il prodotto, riconosce un risarcimento di 5,2 milioni. Peccato che la sentenza sia arrivata a sei anni di distanza, 15 mesi dopo il fallimento, quando i buoi erano scappati dalla stalla.
La giustizia-lumaca costa agli imprenditori italiani oltre un miliardo l’anno, con tempi di attesa record: 1.185 giorni (3 anni e 1 mese). I loro colleghi nel resto d’Europa impiegano meno della metà: 544 giorni. Ma i tempi per chiudere una causa civile sono molto diversi nelle varie zone d’Italia. Secondo uno studio della Confartigianato le attese più lunghe per un procedimento civile presso il Tribunale ordinario si registrano nel distretto di Messina con 1.992 giorni, seguito da Salerno con 1.919 giorni, Potenza con 1.831 giorni, Catanzaro con 1.703 giorni e Bari con 1.484 giorni. I tempi più brevi si rilevano nel distretto di Trento con 601 giorni, seguito da Trieste con 656 giorni, Torino (666 giorni), Milano (739 giorni), Brescia (818 giorni). Lunghe attese nelle aule anche a Catania (1.320 giorni in media), a Perugia (1.292 giorni), a Napoli (1.240).
A Roma si attende in media 1.074 giorni, contro i 739 giorni di Milano e i 666 di Torino. In media 1.185 giorni (3 anni e 1 mese). I loro colleghi nel resto d’Europa impiegano meno della metà: 544 giorni..
D’altra parte riceviamo lezioni perfino dalla Polonia: «In Italia non si combina nulla. È la quarta volta che arriviamo dalla Polonia per niente: il processo al tribunale di Treviso continua a essere rinviato. Siamo stufi. Rinunciamo anche ai soldi che ci è costata la truffa», hanno detto ai carabinieri i titolari di due aziende di funghi polacche, scegliendo di non presentare il conto ai tre imputati, accusati di falso, truffa e riciclaggio.
Otto anni in tribunale tra attese e rinvii: «Questo è un girone infernale - hanno aggiunto. - Non è Europa». Avevano chiesto 220 mila di risarcimento. Hanno preferito perderli piuttosto che continuare a vagare nel labirinto giudiziario italiano.
Giorgio Ponziano, ItaliaOggi 27/9/2014