Mario Platero, Il Sole 24 Ore 27/9/2014, 27 settembre 2014
IL MODELLO DETROIT
Matteo Renzi in maniche di camicia, Sergio Marchionne nel tradizionale pullover scuro: il saluto informale sembrava più adatto alla Silicon Valley che alla capitale della "brick and mortar" americana.
Ma anche questo contorno d’immagine dà la misura di quanto le cose siano cambiate qui alla Chrysler, "in fabbrica", sul piano dei rapporti sindacali, su quello produttivo – con l’integrazione di metodologie di produzione italiane con quelle americane – su quello finanziario, su quello tecnologico. La "guida" Marchionne ha portato Renzi in visita nel cuore pulsante di una nuova realtà aziendale globale, la Fca, la Fiat Chrysler Automobile, come già annuncia il grande cartello all’ingresso. Un giro nel grande "Dome", enorme capannone ultramoderno, tetto rotondo bianco, a fianco dei quartieri generali dove ci sono le operazioni più avanzate "top secret", il Design Center, il "centro stile" per i modelli del futuro e l’impianto pilota dove vengono simulate le nuove catene di montaggio dei nuovi modelli. Un condensato di mini-simulazioni di assemblaggio della Chrysler, della Dodge, della Jeep e della Ram. Renzi, in compagnia del ministro dell’Ambiente Gian Luca Galletti, ha visto impianti d’avanguadia. Fra gli addetti non operai in tuta blu ma tecnici in camice bianco che lavorano su computer per controllare la catena di robot che assembla il tutto. Grande silenzio, ambiente asettico. Renzi ha visto cosa si può fare quando un contesto economico offre la possibilità di adattare con rapidità una forza lavoro alle sfide della nuova tecnologia e della competitività dei costi sia interna che internazionale. Insieme i due fanno due promesse, Renzi di portare avanti la sua riforma del Lavoro «vecchia di 40 anni per pensare ai prossimi 20». Marchionne dice si essere pronto a investire in Italia se le riforme di Renzi saranno accettate.
Un aggiustamento di modelli competitivi dunque. Il vantaggio americano? Quello di aver potuto ristrutturare partendo da un modello già molto più aperto di quello italiano. Per il settore auto poi c’è un unico interlocutore sindacale, Bob King, capo della UAW (United Automobile Workers), un sindacalista interessato più alla possibilità di aumentare i posti di lavoro a Detroit che difendere vecchi principi: King sa bene che il contesto competitivo continentale americano aveva messo Detroit e la sua forza lavoro fuori mercato rispetto agli altri centri produttivi di Volkswagen e Bmw in Virginia e Alabama o quelli di Honda e Toyota in California. E dunque si è seduto al tavolo per trovare una soluzione con tutti gli "attori" interessati. Si è partiti dal costo del lavoro: una "task force" nominata da Obama ha avuto l’input dei sindacati, degli industriali, quelli degli analisti, degli esperti. Alla fine le soluzioni: ha chiesto e ottenuto la possibilità di poter creare due livelli di assunzione. Quel che rimaneva del "Tier One" (dopo una forte riduzione della forza lavoro) avrebbe continuato a guadagnare 28 dollari l’ora, e il "Tier 2", il secondo livello, quello dei nuovi assunti, sarebbe stato pagato quasi la metà, 15,78 dollari all’ora. Ora l’obiettivo di far convergere negli anni i salari medi con nuovi pensionamenti e nuove assunzioni che gradualmente guadagneranno di più. C’è stato un accordo per non avere scioperi su rivendicazioni contrattuali e un altro accordo per non cambiare nulla per 5 anni a partire dal 2009, l’anno Zero, l’anno in cui sembrava che Detroit e l’auto potessero essere cancellate dal contesto competitivo dell’auto. Ma l’accordo è onnicomprensivo, non riguarda solo i salari o la flessibilità ad avere salari diversi. Tutte le parti in causa hanno "sacrificato" qualcosa, i concessionari hanno dovuto accettare una riduzione del loro numero. Si è preso come punto di riferimento la redditività dei concessionari di modelli giapponesi, chi era sotto la media ha lasciato. Steve Rattner e Ron Bloom, i capi della task force hanno negoziato anche un ridimensionamento delle pretese degli obbligazionisti. Il risulato di questa operazione? Oggi la Chrysler ha una forza lavoro che per il 40% è formata da nuovi lavoratori, molti giovani, con un salario differenziato. Ha ripagato in 23 mesi e con gli interessi gli 8 miliardi di dollari concessi in prestito dal governo americano. Ma la carta vincente di Marchionne, e questo lo ripete da sempre e lo ha ripetuto anche ieri qui a Detroit, nell’incontro stampa con Renzi, è stata quella di integrare due culture, di aver creato una vera impresa globale. Marchionne ha portato da Torino l’approccio «World Class Manufacturing», una variazione sulla filosofia produttiva della Toyota per la "qualità totale" che consentiva di evitare gli sprechi. Ha anche portato il Fire Engine, il motore di piccola cilindrata, massimo 1500 cc, motore multiair per risparmiare carburante, in cui la Fiat è maestra, ma ha anche portato la produzione della Jeep Renegade in Italia. Gli esempi potrebbero continuare. Dopo la visita Renzi osserva: «Oggi qui c’è una grande azienda capace di stare sul mercato globale». Qualche nostalgico legato a vecchi modelli si ostina a dire che Fiat perde la propria relazione con l’Italia, ma a questo Renzi risponde: «Io sono entusiasta di una grande azienda che si apre al mondo perché mi interessa che gli ingegneri abbiamo possibilità di lavoro, che da Melfi a Grugliasco si possa investire in innovazione». Un incontro con i lavoratori di Fiat Chrysler, strette di mano. Il viaggio americano di Renzi dalla Silicon Valley a Detroit si chiude sulla stessa nota di fondo: apertura contro chiusura, flessibilità per creare nuovi posti di lavoro non per distruggerli. E, risultati Chrysler a parte, ieri tornando in Italia ha letto un’altra notizia: il Pil americano per il secondo trimestre è stato corretto, al rialzo, dal 4,2 al 4,6%.
Mario Platero, Il Sole 24 Ore 27/9/2014