Sebastiano Vassalli, Corriere della Sera 27/9/2014, 27 settembre 2014
IL MIO VIAGGIO NEL SEICENTO CHE MANZONI NON RACCONTO’
Ho trascorso due anni della mia vita (il 1987 e il 1988) nel Seicento, e ho raccontato la storia di Antonia e del vescovo Carlo Bascapè, seguendo l’esempio e l’insegnamento di Alessandro Manzoni che credeva di dover scoprire in quel secolo le radici dell’Italia moderna e del carattere degli italiani. Secondo Manzoni, due grandi avvenimenti del passato: la Controriforma della Chiesa cattolica e la dominazione spagnola a Milano e a Napoli hanno modificato profondamente la nostra indole e i nostri costumi, facendoci diventare come eravamo ai suoi tempi e come in parte siamo ancora oggi.
Anch’io mi ero convinto che il nostro carattere nazionale fosse nato lì, in quei cento anni tra la metà del Cinquecento e la metà del secolo successivo. Tra Controriforma e dominazione spagnola. La Controriforma, ci dicono i libri di storia, ha cambiato i connotati della Chiesa e di un papato, che era ormai diventato una corte rinascimentale. Ha imposto con forza, anche con gli strumenti del Sant’Uffizio e dell’Inquisizione, la religione come centro della vita degli uomini nei Paesi cattolici, sia per gli appartenenti alla nobiltà che per i ceti popolari. Ma anche la dominazione spagnola nel Nord e nel Sud del Paese, e l’influenza della Spagna nella politica italiana di quegli anni hanno lasciato un segno indelebile nella nostra organizzazione sociale e nel nostro modo di essere cittadini di uno Stato. Un segno che non è ancora scomparso.
Manzoni è stato il primo a riflettere sul carattere degli italiani. E il suo romanzo I promessi sposi , oltre a rappresentare il passaggio della lingua italiana dall’uso letterario all’uso comune, doveva raccontare le origini di una nazione che era sempre esistita, tra le Alpi e la Sicilia, ma che sarebbe nata ufficialmente soltanto nel 1861, con il raggiungimento dell’unità politica.
Che bisogno avevo, io, di tornare nel Seicento, se già c’era stato un grande come lui, e se già esisteva un capolavoro come I promessi sposi per parlarci delle nostre origini? Cosa ancora avrebbe potuto rivelarmi quel secolo?
In realtà, le cose non erano così semplici come queste domande farebbero supporre. Non lo erano perché nessuna opera letteraria, per quanto importante, può esaurire un tema tanto complesso com’è il carattere di un popolo; e perché nessun autore, nemmeno Manzoni, rappresenta un punto di vista fuori dell’epoca in cui vive. Un punto di vista definitivo anche per le epoche successive.
L’ultima parola, in letteratura, non è mai stata scritta né mai lo sarà.
Uomo di fede ma anche uomo del Risorgimento, cioè della sua epoca, Manzoni aveva studiato a fondo i vizi e le virtù degli italiani e conosceva bene il nostro carattere nazionale. Avrebbe potuto rappresentarlo al peggio; scelse, invece, di rappresentarlo al meglio, perché l’Italia doveva ancora nascere e si sperava che potesse nascere con il suo aspetto migliore. Perciò il Seicento, che fu un secolo a tinte violente, un secolo terribile, nel suo romanzo è corretto con molto Ottocento. Don Abbondio è un prete contemporaneo del suo autore. I preti della Controriforma, quelli veri, non avrebbero potuto concedersi le sue abitudini e i suoi tic, impegnati com’erano a ripristinare diritti e prerogative che risalivano al Medioevo e che si erano persi con il trascorrere dei secoli, e a tiranneggiare i loro parrocchiani con sanzioni per noi oggi inimmaginabili, se non si confessavano e comunicavano almeno una volta all’anno e non seguivano i precetti della religione. Anche il cardinale Federigo Borromeo, rispetto al vero personaggio storico, nei Promessi sposi è molto idealizzato; e anche la conclusione del romanzo, con la nascita dell’industria, è rivolta più al secolo dell’autore e alle sue prospettive di sviluppo, che all’età barocca in cui è ambientata la vicenda dei due fidanzati.
Perciò io ho scelto di raccontare una storia del Seicento. Perché tornare in quel secolo dopo Manzoni significava tornarci dopo l’Unità d’Italia; dopo la Grande Guerra e il fascismo; dopo la catastrofe e il naufragio della Seconda guerra mondiale. Quanti Conti zii e don Rodrighi e Innominati, quanti don Ferrante e donne Prassede e fra Cristofori, ma anche e soprattutto quanti Renzi e quante Lucie si erano poi persi, irrimediabilmente, in quel naufragio! Tornare nel Seicento dopo Manzoni significava compiere un viaggio alle origini del nostro carattere nazionale, senza le indulgenze e i correttivi messi in opera da chi, all’inizio dell’Ottocento, doveva parlare di un’entità culturale e politica: l’Italia, che già in qualche misura esisteva ma che ancora non aveva preso il suo posto nella geografia delle nazioni europee (...). Avevo messo gli occhi, per il mio romanzo, su una vicenda milanese dei primi anni del Seicento, già raccontata da uno scrittore contemporaneo di Manzoni, Achille Mauri, in una sua opera intitolata Caterina Medici di Brono. Novella storica del XVII secolo . Il Mauri mi aveva fatto scoprire una storia che non conoscevo.
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Pagina Corrente
Pag. 50
Immagini della pagina
Visualizza :
Data
Contenuti
Pubblicazioni
Opzioni
Zoom