Amelia Beltramini, Focus 10/2014, 26 settembre 2014
IO IMPARO, MA TU INSEGNAMI
Tutto da rifare: ciò che sappiamo in materia di educazione, di insegnanti e di scuola è per lo più sbagliato, frutto di convinzioni errate, studi mal fatti, ipotesi non documentate, stereotipi. Ecco, tanto per cominciare, 6 miti che le ricerche hanno recentemente confutato.
Ogni studente è dotato di un certo tipo di intelligenza e da il suo meglio con un particolare stile di apprendimento.
Howard Gardner, l’ideatore delle intelligenze multiple, ha personalmente gettato nel cestino la teoria degli “stili di apprendimento”: insegnare le materie nel modo adatto alla cosiddetta “intelligenza” di cui lo studente sarebbe dotato (cioè usando un approccio più visuale, o più linguistico o più matematico) non ha alcun fondamento scientifico. «Impariamo tutti usando i cinque sensi» ha detto Gardner.
Parlare contemporaneamente due lingue nell’infanzia crea confusione.
Anche questo è un falso mito. Poiché le aree cerebrali che si occupano di due lingue diverse non sono sovrapposte, non può esserci conflitto. Anzi, è vero il contrario: migliora il controllo degli impulsi e la concentrazione.
I maschi sono più bravi in matematica, le femmine in italiano perché hanno abilità cognitive diverse.
Macché! Questo caposaldo della psicologia di genere è stato sbaragliato da uno studio di ricercatori austriaci e svedesi, condotto in 13 Paesi europei. La ricerca – con test cognitivi, di memoria, abilità matematiche e verbali su 31 mila maschi e femmine ultracinquantenni – ha dimostrato che le differenze di genere sono inversamente proporzionali alle opportunità educative. Maggiori sono le opportunità di cui si gode, minori le differenze a vantaggio dei maschi o a svantaggio delle femmine. L’Inghilterra è il Paese più equilibrato: lì, maschi e femmine hanno pari opportunità; ai due estremi ci sono il Bahrein, con il massimo svantaggio per le ragazze, e la Tunisia, con il massimo vantaggio per i ragazzi.
Nelle classi con meno allievi si impara meglio.
L’assunto è ingiustificato: nei Paesi asiatici, che raggiungono i risultati migliori ai test internazionali di valutazione Ocse-Pisa, ci sono 35-45 alunni per classe. «Le ricerche dimostrano che scendere da 25-30 alunni a 15 per classe non migliora l’apprendimento» dice Antonio Galvani, docente di metodi e tecnologie educative dell’Università di Firenze «forse perché gli insegnanti non cambiano l’impostazione delle lezioni adattandola alla situazione».
Lavagne interattive multimediali, iPad, computer e smartphone migliorano l’apprendimento.
Falso. «Le tecnologie non sono la soluzione dei problemi della scuola» spiega Calvani. «Gli studi su migliaia di ragazzi hanno dimostrato che smanettare con il digitale non si accompagna quasi mai a un avanzamento qualitativo dei processi di pensiero». Altre ricerche hanno addirittura dimostrato che studiare su un libro elettronico o prendere appunti al computer rende più difficile ricordare e studiare. Meglio la carta.
Lodare spesso gli allievi li induce a impegnarsi.
Neanche questo è vero. Gli studenti non hanno bisogno di apprezzamenti continui. La psicologia comportamentale insegna che solo il rinforzo intermittente e imprevedibile produce abitudini forti e persistenti. Traduzione: poche lodi, e misurate. L’incoraggiamento continuo e prevedibile porta invece a interrompere lo sforzo appena gli apprezzamenti non arrivano più: è il modo migliore per ottenere scolari incapaci di persistenza e di autocontrollo.
RIVOLUZIONE COPERNICANA. Sono soltanto alcuni esempi dello tsunami in arrivo nella psicologia dell’educazione. Ma i risultati più sorprendenti li trovate nei grafici di queste pagine, tratti dalle ricerche di John Hattie, direttore dell’Education research institute della University of Melbourne in Australia, che ha valutato 50 mila studi condotti su 240 milioni di studenti di tutto il mondo. Dopo la medicina, anche la pedagogia internazionale abbandona così le “opinioni degli esperti” per passare agli studi compiuti con metodo scientifico. Di qui la nuova disciplina, l’Evidence based education, cioè educazione basata sulle evidenze, e quindi sulla ricerca quantitativa, per misurare le variabili che influenzano i risultati dell’apprendimento. In Italia sembra che nessuno se ne sia ancora accorto: non gli editori, che non traducono i libri sul tema; non il ministero; neppure gran parte della ricerca pedagogica (poche le eccezioni), e nemmeno gli insegnanti, benché i risultati della scuola italiana siano regolarmente sotto la media dei Paesi dell’Ocse.
Eppure questa rivoluzione copernicana ha più di 30 anni. È iniziata negli Stati Uniti nel 1983 quando la National commission on excellence in education pubblicò un rapporto, A Nation at Risk, che rivelava un elevatissimo, inaccettabile tasso di analfabetismo scolastico fra gli studenti. Quindici anni dopo, era il 1998, in Gran Bretagna due rapporti governativi giungevano alle stesse, amare, conclusioni. Sia negli Usa, sia in Gran Bretagna, gli esperti attribuivano concordemente la responsabilità del fallimento ai limiti della ricerca educativa. «Allo stato attuale, l’insegnamento non è una professione basata sulla ricerca. Non ho dubbi che, se lo fosse, sarebbe più efficace e soddisfacente» scriveva allora David Hargreaves, della University of Roehampton di Londra e coordinatore di uno dei rapporti.
EFFETTO PLACEBO. Di qui la virata: così come i medici, anche gli insegnanti avrebbero dovuto usare metodi frutto di conoscenze verificabili, condivise e affidabili. In altre parole, si doveva passare a pratiche di insegnamento scientificamente validate, basate su evidenze e non sulle ipotesi di un singolo pedagogista, sulle intuizioni indimostrate di un ricercatore o sui tentativi di un docente.
C’era l’ambizione di costruire un metodo valido per le scuole di tutto il mondo, che assicurasse i risultati migliori, evitando che in ogni classe ciascun insegnante se la vedesse da solo coi suoi problemi.
Un primo passo è stato fatto: in molte scuole del mondo gli insegnanti hanno cominciato a disegnare esperimenti coinvolgendo le scolaresche con il supporto tecnico-scientifico di pedagogisti e statistici. Proprio come avviene in medicina nella sperimentazione con placebo, professori e maestri hanno composto gruppi omogenei di allievi assegnandoli casualmente a una tecnica di insegnamento o a un’altra. Hanno valutato la situazione di partenza e l’hanno riverificata dopo l’intervento educativo, misurandone gli effetti (per esempio quanti studenti avevano imparato a leggere in modo fluente, quanti stentatamente, quanti non erano progrediti). I risultati sono depositati nelle banche dati: l’americana What Works Clearinghouse, la britannica Eppi, ma anche database di università inglesi, australiane, dei Paesi Bassi...
PICCOLI CAMPIONI. Rimaneva tuttavia un problema: questo tipo di ricerche, se prese una a una, riguardano pur sempre campioni di studenti troppo piccoli per giustificare una scelta didattica nazionale (per non dire planetaria). La soluzione? Aggregare i risultati di tanti piccoli studi sullo stesso tema (per esempio l’apprendimento della lettura); verificare che la loro metodologia sia corretta e standardizzare il dato con precise tecniche di analisi (revisione sistematica e meta-analisi). Con risultati come quelli di questo servizio, molto spesso contro-intuitivi.
TUTTI PROMOSSI! La bocciatura, per esempio, come sottolinea l’analisi di John Hattie, peggiora la capacità di imparare, nonostante venga attribuita al “bene dell’alunno”. Anche la televisione, contrariamente a quanto si potrebbe pensare, ha un effetto negativo. I bambini che guardano la tv più di 10 ore la settimana perdono competenze: arretrano invece di avanzare. Per non parlare delle etichette (“Giovanni non capirà mai la matematica”) che definiscono che cosa i ragazzi sono in grado di apprendere. Sono frutto di pregiudizi. Gli studi hanno dimostrato invece che, se vuole che tutti gli studenti imparino, l’insegnante deve essere convinto per primo che tutti, appunto, possono imparare. Nozioni come talento, abilità e intelligenza sono insufficienti a spiegare l’apprendimento, che è invece il risultato di investimenti consistenti di tempo, energie, lezioni strutturate e sforzi personali. Di fatica, insomma.
Gli arretramenti causati da “errori” dell’educazione sono ancor più drammatici se si pensa che i bimbi della Liberia e del Guatemala, mai entrati in una classe, migliorano comunque il loro apprendimento in modo misurabile semplicemente crescendo. Per questo, dicono i ricercatori, non bisogna accontentarsi di piccoli progressi, che si verificano probabilmente comunque, ma mirare a interventi che portano grandi risultati.
TORTURE INUTILI. Non è il caso dei compiti quotidiani, che alle elementari e alle medie risultano inutili. Se proprio si ritiene di assegnarli, che non superino i 5 minuti di impegno e soprattutto che l’insegnante li valuti sempre uno per uno. Nelle scuole superiori, invece (sempre se vengono corretti), la misura dell’effetto positivo è consistente.
«Negli ultimi 15 anni si è formato un corpus di pratiche educative con diversi livelli di attendibilità» riassume Giuliano Vivanet, pedagogista dell’Università di Cagliari e autore del primo testo italiano sull’Evidence based education. Divide le pratiche educative in 4 categorie di attendibilità decrescente:
a) Pratiche basate sull’evidenza: protocolli rigorosi, che hanno dimostrato di migliorare i risultati degli studenti, e che sono stati sottoposti a revisione sistematica.
b) Pratiche basate sulla ricerca: rigorose e capaci di migliorare i risultati, ma non sottoposte a revisione sistematica.
e) Pratiche promettenti: basate sulla ricerca, ma con protocolli deboli, o di scarso successo.
d) Pratiche non fondate: non basate sulla ricerca, non corroborate da dati di efficacia, basate su aneddoti o opinioni.
Quanto agli studi italiani, sono depositati nella banca dati online delle buone pratiche Gold di Indire (Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa), ma mancano le valutazioni su scientificità o attendibilità.
Uno dei maggiori produttori di meta-analisi, punto di riferimento mondiale, è proprio John Hattie, autore di oltre 1.000 lavori che riassumono 50 mila studi compiuti in tutto il mondo: un distillato di ciò che funziona nella scienza dell’educazione. Di cui i genitori e la scuola italiana dovrebbero tenere conto.
Amelia Beltramini