Giuliano Aluffi, il venrdì 26/9/2014, 26 settembre 2014
SIAMO SEMPRE MENO INTELLIGENTI
Homo sapiens sta diventando Homo insapiens? Oggi alcuni scienziati temono che il nostro futuro sia stato in qualche modo predetto da Idiocracy. un curioso film del 2006 di Mike Judge. Li un uomo, ibernato in un esperimento, si risveglia cinque secoli dopo in un mondo di stupidi: il declino è dovuto al fatto che i più intelligenti si sono fatti troppi problemi prima di mettere al mondo un figlio, e hanno pensato troppo alla carriera, mentre gli altri sono stati molto più prolifici...
Forse non siamo ancora all’involuzione della specie, ma qualche segnale da non sottovalutare c’è. Il settimanale New Scientist ha riportato per esempio che il quoziente di intelligenza in Paesi che ne fanno misurazioni di massa, come la Danimarca, sta calando.
Certo, il QI è un punteggio ottenuto tra mite test standard sulle capacità logiche, aritmetiche, lessicali e mnemoniche, quindi molti ritengono che sia uno strumento non in grado di fotografare una realtà complessa come l’intelligenza, ma solo di metterne in evidenza alcuni aspetti specifici. Si tratta comunque della misura più usata e sinora considerata attendibile in psicologia e sociologia. Dagli anni Trenta a oggi, il QI ha avuto la tendenza a salire. Negli Stati Uniti e aumentato per esempio di 3 punti per decade. un incremento noto come effetto Flynn: dagli studi del ricercatore James Robert Flynn, che negli anni Ottanta confrontò i QI in medi e vari Paesi trovando un trend positivo costante. Negli ultimi anni però, in diversi Paesi. soprattutto tra i più sviluppati. la tendenza sembra essersi invertita. In Danimarca, appunto, lo psicologo Thomas Teasdale delI’Università di Copenaghen, analizzando i test di intelligenza effettuali ogni anno sui militari, ha notato che dal 1950 al 1970 l’incremento e stato simile a quello americano, con un guadagno di 7 punti, mentre dagli anni Ottanta la linea nel grafico e salita si, ma con sempre minore baldanza. Nel 1998 poi è iniziato un lento declino: da quell’anno a oggi si sono persi 1,5 punti. Come si spiega?
Lo abbiamo chiesto allo stesso Teasdale. «Gli incrementi fino al 1998 si sono avuti nella fascia più bassa: ossia si è ridotto il numero di militari con punteggi molto bassi al test, mentre non e aumentato il numero di militari con alto punteggio» spiega l’esperto.
«È la scuola, molto più di altri fattori come la nutrizione, a spiegare l’aumento di QI e il suo attuale declino. In Danimarca abbiamo avuto eccezionali miglioramenti nell’istruzione negli anni Sessanta e Settanta: si è ridotta l’età di ingresso, sono diminuiti gli abbandoni ed è cresciuta l’enfasi didattica sulla soluzione di problemi piuttosto che sul nozionismo. Invece negli ultimi decenni la scuola è cambiata di meno».
È consolante che il quoziente di intelligenza sia correlato a qualcosa di migliorabile, come l’istruzione. Ma c’è anche chi dipinge scenari negativi senza vie d’uscita. È il caso di Gerald Crabtree, direttore del Dipartimento di genetica all’Università di Stanford. Nel 2012, sulla rivista Trend in genetics, Crabtree ha suggerito che i geni necessari all’intelligenza, stimati in maniera molto approssimativa tra duemila e cinque mila, sono particolarmente vulnerabili alle mutazioni. Statisticamente negli ultimi tremila anni devono aver perciò subito almeno due o più mutazioni peggiorative, che non sarebbero più state neutralizzate dall’evoluzione perché l’uomo, grazie al progresso e alla civiltà, si è affrancato dagli aspetti più duri della selezione naturale. Di più, Crabtree delinea un «effetto a cascata», che tenderebbe a ingigantire il difetto di un gene. Per molti suoi colleghi, però, sbaglia: secondo loro una mutazione negativa di un gene tenderebbe infatti a rimanere circoscritta e a influire in modo nullo o trascurabile sull’intelligenza nel suo complesso.
Il pessimismo sulle sorti dell’intelletto umano non finisce però con Crabtree: secondo uno studio pubblicato l’anno scorso sulla rivista Intelligence dagli psicologi Jan te Nijenhuis (Università di Amsterdam) e Michael Woodley (Libera Università di Bruxelles), e aggiornato quest’anno con nuove stime, saremmo già meno intelligenti dei nostri antenati dell’epoca vittoriana (1837-1901). «Nel nostro studio del 2014 abbiamo perfezionato il confronto fatto nel 2013 tra i risultati dei test sui tempi di reazione - un soggetto, all’apparire di una luce, deve premere un pulsante - effettuato su contemporanei e i risultati storici dello stesso test nei secoli scorsi: ebbene,’abbiamo trovato un declino pari a 14 punti di QI dice Jan te Nijenhuis.
Per la verità in epoca vittoriana non esisteva il test QI odierno, ma lo scienziato ritiene affidabile la sua conversione dei tempi di reazione in punteggio QI equivalente, fatta usando algoritmi statistici. «È un calo in linea con una tesi non accettata da tutti, ma che io condivido» dice: «negli ultimi 150 anni le don ne con alto QI hanno avuto, in media, meno figli delle altre. Di conseguenza la percentuale di persone con QI superiori a 130 si è ridotta in maniera notevole. Del resto, secondo uno studio del 2005 del fisico Jonathan Huebner, nel 1850 il ritmo delle grandi innovazioni era di 16 all’anno per miliardo di persone, oggi si è ridotto a 4, anche se il reddito medio del tempo era inferiore e c’erano meno laureati. Certo, oggi abbiamo l’iPhone 4, l’iPhone 5, l’iPhone 6, però il telefono è stato inventato nel diciannovesimo secolo. Oggi abbiamo moltissime micro-innovazioni, ma sono per lo più variazioni di macro-innovazioni dei geni del passato. Il livello di invenzioni importanti pro capite ora è lo stesso del 1350».
Ma perché ci sarebbero meno inventori? «È calata l’intelligenza generale, ossia la velocità di elaborazione del cervello, utile a risolvere problemi cognitivi complessi» dice Michael Woodley. «I tempi di reazione - che sono correlati alla quantità di mielina, sostanza che isola le cellule nervose rendendo più rapido il passaggio di impulsi tra neurone e neurone - danno un’indicazione affidabile dell’efficienza del cervello: più siamo veloci più dati attraversano il cervello quando affrontiamo un problema».
Questo, però, non vuol dire che i vittoriani ci avrebbero surclassato nei test odierni. «I test QI, più che l’intelligenza generale, misurano affidabilmente alcune capacità specifiche. E oggi siamo più allenati proprio nell’esercizio di quest’abilità: abbiamo preso quelle che Flynn definisce "abitudini di pensiero" utili a eccellere in particolari domini cognitivi. Questo può spiegare, per esempio, perché oggi abbiamo migliori giocatori di scacchi e di bridge, mentre la produzione media di grandi invenzioni, più dipendenti dalla velocità del cervello, sono in declino».
Eppure noi tenderemmo a considerarci più produttivi e «smart» dei vittoriani: un’autoillusione? «Non esattamente: con l’aumentata divisione del lavoro siamo diventati specialisti che fanno la loro parte in un team eterogeneo. Per questo, anche se il nostro cervello è meno rapido di quello dei vittoriani, siamo comunque più produttivi: la maggiore specializzazione compensa la lentezza» risponde Woodley. «E l’intelligenza collettiva e collaborativa, che oggi si può organizzare grazie a strumenti come internet, e superiore a quella che si poteva avere due secoli fa, anche se individualmente siamo peggiorati». La strada per non finire nella distopia di Idiocracy, insomma, e chiara: puntare - più che sulla velocità del cervello e sugli inaffidabili geni - sulla scuola e la cultura.