Alessandro Agostinelli, L’Espresso 26/9/2014, 26 settembre 2014
SERGEJ L’AFRICANO
[Intervista a Sergej Yastrzhembskiy] – C’è un uomo che sta tentando di salvare gli elefanti. E lo sta facendo con un film che è in fase di montaggio e sarà presentato in Russia e in altri paesi europei prima di Natale. Sergej Yastrzhembskiy ha documentato la caccia feroce contro gli elefanti per l’avorio delle loro zanne che ha molti usi commerciali, tra cui pomate e idoli religiosi. Questo regista russo, da poco appassionato di elefanti, lavora da anni in Africa con gli indigeni. Il 20 ottobre sarà ospite a Londra, alla prestigiosa National Geographic Society, per presentare in anteprima europea il libro “Patriarchal Africa” (editore Skirà), due volumi dedicati alle popolazioni tribali. Se pensiamo ai patriarchi dell’umanità ci vengono in mente nomi nobili e imprescindibili, come Platone, Gesù, Budda. Eppure il regista russo, che in passato è stato portavoce di Boris Yeltsin e poi di Valdimir Putin, da qualche anno gira il mondo fotografando le popolazioni che stanno scomparendo e ha trovato, in Africa, qulli che si possono considerare i veri patriarchi dell’umanità. Sono gli umili indigeni di tante tribù che vivono, ancora oggi, secondo usanze antiche e tribali. Guardando le immagini di questo libro fotografico sembra di intraprendere più un viaggio nel tempo che uno spostamento geografico sull’asse dei paralleli terrestri, dal nord al sud del Mondo.
Lei ha avuto una vita politica ad alto livello in Russia. Perché ha abbandonato un’importante carriera per andare a fotografare le tribù africane?
«Ho dedicato trent’anni della mia vita al lavoro statale, come politico, diplomatico e giornalista, di cui dieci al Cremlino, come stretto collaboratore dei presidenti Eltsin e Putin. Ero responsabile del rapporto con i media, delle relazioni internazionali e dei rapporti con l’Unione Europea. Però è arrivato un momento nella mia vita in cui sono capitati molti cambiamenti: una famiglia nuova e mia moglie, Anastassia, molto legata all’Italia, dove aveva vissuto, dal 1989, col figlio del regista e dissidente russo Andrej Tarkovskij, in Toscana. Con lei, con i figli e con nuovi amici italiani come lo scrittore Tonino Guerra e lo stilista Elio Fiorucci le mie relazioni umane si sono modificate: la politica è affascinante, ma spesso lascia poco spazio alle amicizie vere. Così, grazie soprattutto all’indimenticabile Tonino Guerra, che mi ha spinto molto a dedicarmi alla fotografia e ai documentari, la mia vita si è allontanata dalla politica. E con pazienza ho convinto i miei superiori a lasciarmi andare via dal Cremlino».
Non dev’essere stato facile lasciare Putin…
«Diciamo che anche la politica, come gli sciamani delle tribù indigene, ha i suoi rituali».
Ma perché si è interessato proprio alle popolazioni del Terzo mondo?
«L’Africa è il continente che amo di più, per la sua originalità favolosa che ancora non ha perso i legami col proprio passato. Qui c’è la rarissima possibilità di guardare la preistoria delle nostre abitudini e capire come si viveva nell’antichità. Basta dare un’occhiata a come vivono oggi i boscimani o i pigmei. Si possono osservare “in originale” le fedi nate all’alba della civiltà, prima delle confessioni monoteistiche. Sono credenze animiste fatte di feticci e vodoo. Tutte queste ricchezze stanno per scomparire sotto la micidiale pressione del tempo e della globalizzazione».
Lei è fotografo ma gira anche molti documentari.
«Occuparmi solo di fotografia non mi dava piena soddisfazione, così, dopo un’analisi attenta dei contenuti di Discovery Channel, National Geographic, Bbc, mi sono accorto che mancavano assolutamente filmati sulla vita dei popoli “primitivi”. È nata dunque l’idea di fare una serie di documentari sulle tradizioni che stanno scomparendo, su “piccole” culture, sui modi di vivere di varie tribù africane. E con questa idea è nata anche la mia società di produzione “Yastrebfilm” che in cinque anni ha girato più di sessanta documentari già passati su vari canali televisivi russi, e vincitori in oltre dieci festival cinematografici internazionali. Con il mio lavoro filmato cerco di fermare “l’attimo fuggente”, e con il libro ho voluto immortalare le tradizioni di popoli africani che piano piano scompaiono».
Si dice che quello che i “primitivi” fanno con la clava i “civilizzati” lo fanno con raffinate operazioni finanziarie. È d’accordo?
«In effetti noi “civilizzati” avremmo molto da imparare da quei popoli. Parlo prima di tutto del loro contatto con la natura di cui si considerano parte integrante e che tutelano. È degna di lode anche la loro capacità di assicurarsi “il pane quotidiano” in condizioni climatiche spesso estreme, servendosi solo di mezzi di lavoro e di caccia che ci paiono tanto arcaici. Inoltre mi ispira enorme rispetto il loro minimalismo nel consumare soltanto ciò che è strettamente necessario per vivere, il loro senso di solidarietà con tutti i membri della comunità, e il loro modo di educare i figli. Colpisce come sono fedeli nel ricordare le anime degli avi scomparsi che continuano a far parte integrante della loro vita di ogni giorno».
Ma c’è una possibilità di incontro reale tra noi europei e gli indigeni africani o dell’Amazzonia?
«Sì, certamente esiste la possibilità di contatti profondi. Così si spiega l’interesse crescente per il turismo etnografico, la medicina, le culture e le credenze degli sciamani, per il contatto diretto con la natura. Molti, istintivamente, sentono che l’esperienza dei popoli “primitivi”, e il contatto con loro caricano di energia positiva e aiutano a risolvere questioni che non possono trattare le religioni o la psicologia tradizionali».
Lei fotografa spesso i riti di guerra o il passaggio dall’infanzia all’età adulta nelle popolazioni indigene. Sono riti che a noi sembrano molto crudeli...
«In tutte le tribù africane che mantengono le tradizioni degli avi, abbiamo visto e girato scene di iniziazione molto forti: circoncisioni, estrazioni forzate di denti, taglio della pelle, affilamento dei denti, traforazione e allargamento delle labbra... Queste operazioni sono definite da regole non scritte e dettate dalle difficilissime condizioni di vita che solo le persone temprate, anche dal dolore, sono capaci di affrontare. Sottomettendo i figli a tali prove di shock psicologico e fisico, li preparano a una vita che non sarà facile. Proprio in questo consiste il senso di questi rituali che molte tv europee non fanno vedere giustificandosi con la famigerata formula del “politically correct”».
Le nostre guerre per il petrolio o il gas sono più tecnologiche di quelle per la difesa del bestiame da parte dei Surma in Africa. Ma dalla sua esperienza ci sono altre differenze?
«Mi sembra che le ragioni principali di qualsiasi guerra si basino sugli stessi istinti umani, quindi non vedo grandi differenze tra le loro guerre e le nostre. Loro però sono più onesti quando si tratta di formulare la ragione principale che li porta alla guerra».