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 2014  settembre 26 Venerdì calendario

BARITONO DA COLLEZIONE

Ci sono due Signore, nella vita di Renato Bruson, il grande baritono, superbo interprete verdiano e donizettiano, 53 anni di carriera sui palcoscenici di tutto il mondo e mai un “addio alle scene”, a differenza di chi ne celebra uno all’anno. La prima Signora ha un’esuberante passione per tutto ciò cui mette mano, un’istintiva propensione al racconto e un cavalluccio marino attorcigliato alla fede nuziale: è Tita Tegano, sua moglie ma anche scenografo e costumista, insieme da quel loro incontro a Spoleto nel ‘61, lui al debutto nei panni del Conte di Luna nel “Trovatore”, lei studentessa di Scenografia all’Accademia di Belle Arti di Roma. L’altra, tutta uno struzzo e uno svolazzo, è la “Signora bionda in abito da sera” dipinta da Giovanni Boldini nel 1899. Bruson la comprò a metà degli anni Settanta, tra i primi pezzi di una collezione che ora ha donato alla Fondazione Cariparma (in mostra dal 28 settembre, si veda il riquadro a lato).
Settanta olii, acquerelli e pastelli, molti mai esposti prima, qualcuno persino dimenticato in un caveau: dello stesso Boldini, che con sacrosante ragioni è tornato a impazzare in mostre e musei da Como a Forlì alla prossima di Ferrara da gennaio; e poi l’Ottocento italiano per blocchi a tema: le scene militari di Giorgio Fattori, i Macchiaioli, i vedutisti veneti. «Mai pensato di comprare un quadro come investimento, sempre soltanto perché mi piaceva, per il soggetto o il paesaggio o la bravura del pittore», premette Bruson. Dev’essere così, se in quelle tele leggi in trasparenza la sua vita. Ti racconta dell’infanzia complicata, la scomparsa della madre, suo padre che lavorava i campi, lui che tornato da scuola doveva cucinare e rassettare, la Laguna che ha sempre amato, Chioggia dove andava al mare da bambino. Guardi i suoi Vedutisti veneti e in luogo di una Venezia da cartolina trovi pescatori, barcaioli, scaricatori, sempre gente che lavora.
Durissimi gli anni della guerra, «i tedeschi ci buttarono fuori di casa, dormivamo nei pagliai, ci scaldavamo con i residui della canapa che qui si coltivava, salavamo la pasta con l’acqua d’estrazione del metano»: e quadri di vita quotidiana di un’altra guerra sono quelli di Fattori, i suoi soldati a cavallo, i carri militari che trasportano balle di fieno. Sempre uomini in movimento, un po’ come lui diciottenne quando si faceva 60 chilometri per andare a Padova al Conservatorio, spesato da docenti lungimiranti o non se lo sarebbe potuto permettere. Fama e successo arrivano, anno chiave, nel 1967 con “La forza del destino” proprio al Regio di Parma, poi il Metropolitan di New York e la Scala di Milano. La sua Belle Epoque, e a veder le foto delle tournée, esposte in entrata alla mostra, anche la spumeggiante “Signora” di Boldini pare un doppio sulla tela di sua moglie Tita: che ne ha persino ripreso abito e gusti disegnando e cucendo i costumi di scena di un concerto e di una Violetta della “Traviata” in chiave liberty.
Ma, all’opposto del ferrarese Boldini, che i contemporanei descrivevano come un dandy istrione e un po’ scorbutico, a Bruson il veneto, Bruson il contadino, non c’è osanna e trionfo che abbia allentato quella «diffidenza maturata da bambino anche quando le cose vanno bene». Il non essere mai contento: «Non sento mai i miei dischi, la volta che l’ho fatto mi ha lasciato così nervoso che non ci ho più riprovato». Lo stare accorto, non fare il passo più lungo della gamba: «Io e mia moglie abbiamo vissuto per decenni in affitto, ho sempre sognato di comprar casa ma l’ho presa, a Roma al Salario, solo quando ho guadagnato tutti i soldi per pagarla senza far debiti». Ancora: il non mimare passioni che non sente e non provare a condividere per obbligo sociale o di casta d’artista ciò che a genio non gli va: «Abbiamo pochi veri amici, e tutti fuori dal teatro. I cantanti? Parlano solo di musica».
Nettezza e rigore sono i tratti peculiari del carattere di Bruson. Bisogna che le cose siano chiare e definite. Un burbero benefico: lui nega schermendosi, ma racconta delle volte (sì, più d’una) in cui s’interruppe a metà di un’aria, a San Francisco perché in platea masticavano chewing-gum, tremendi gli americani, cowboy coi soldi, o a Vienna perché una signora in prima fila scartava una caramella con lentezza esasperante: «Finisca pure il suo lavoro, poi riprendo il mio». Burbero benefico, sì, conferma la moglie Tita, e racconta la volta che nel cinquecentesco costume di Carlo di Vargas in “La forza del destino” lui prese per il collo e attaccò al muro il critico Paolo Isotta reo di aver scritto che «Renato doveva rivedersi il solfeggio e il movimento scenico! Proprio lui che ha una tecnica diabolica, lui che è un cantante-attore, che è innanzitutto interpretazione! Prenda il Macbeth verdiano: lo ha rappresentato 400 volte, e ogni volta aggiunge, cambia, lima qualcosa, uno scavo continuo...»
Dimenticate di essere cantanti: questo dice Bruson ai suoi studenti, all’Accademia Chigiana di Siena, all’Accademia della Scala come direttore didattico della Scuola di perfezionamento, e ora a Palazzo Forti Sabbioneta presso Parma. «Io non insegno canto, insegno interpretazione vocale del personaggio. Mi interessa la parola. Questo è il melodramma, musica e immagine, la musica è composta sul testo, non viceversa. Lo diceva anche Verdi: seguite il poeta più del compositore, la voce è il 50 per cento, il resto è cervello e cuore. Come puoi emozionarti, cosa vuoi mai trasmettere, se non t’importa nulla di ciò che il testo racconta?» È questa una ricorrente polemica, che da sempre mette a subbuglio il mondo della lirica. Bruson è unanimemente considerato un maestro del “bel canto”, ovvero il fraseggio, le sfumature, l’accorta modulazione della voce senza eccessi plateali, nella tradizione del “recitar cantando”: «Ma non lo pratica più nessuno, non interessa più. Le voci ci sarebbero, sono i maestri che mancano», attacca Bruson.
Tenero non è davvero, ma neanche ti aspetti che lo sia. In 53 anni di carriera, come sarà cambiato il pubblico della lirica? «Prenda qua a Parma, appassionati e sentimentali, un tempo non la facevano passar liscia a nessuno, ricordo panche gettate dal loggione per protestare contro un noto baritono. Erano salaci, una fossa dei leoni, ma era un teatro vivo. Oggi si accontentano, passa di tutto». Dicono che il teatro, la lirica, è agonizzante. «Non morirà mai, cos’è un uomo senza musica? È che la vogliono affossare: ogni nuovo sovrintendente si porta il suo codazzo, quando lui va via il codazzo resta e un altro se ne aggiunge». I registi? «Oggi tutti divi, lo spettacolo che fanno è il loro, Verdi o Puccini non sono altro che un “sottofondo musicale”». Interviene la moglie Tita: «Strehler, lui sì rispettava i cantanti, i protagonisti come chi aveva una piccola parte. Oggi meno ne sanno e più sono prepotenti, all’opposto più sono grandi e più sono rispettosi. Zeffirelli. Visconti...»
Tirato per la giacca, anche a lui scappa detto: «Sì, finiti i Visconti, ora tutti cerebrali viscontini...» Gli elenchi tenori, baritoni, soprani con cui ha cantato, ma non c’è verso: «Non mi tirerà fuori una sola parola sui miei colleghi, neanche su quelli che apprezzo». Quanto alle vere primedonne, non ha dubbi: «I direttori d’orchestra. Dei più sono deluso, sì». Prepotenti? Vogliono imporre la loro? «Peggio. Non hanno niente da imporre perché non approfondiscono nulla». Non come Carlo Maria Giulini, con cui fece il “Falstaff” a Los Angeles: provarono per un mese e mezzo, e Bruson era felice di scavare insieme giorno dopo giorno in ogni nota e intonazione e tratto del personaggio. Vuotato il sacco ed elencate le delusioni, «rifarei esattamente tutto ciò che ho fatto». Che non è solo lirica. Tutta la musica gli piace. Il jazz. La leggera: ha inciso dischi, cantato Cocciante, memorabile la sua versione del “Vecchio frac” di Modugno. La sinfonica: «Ma arrivo al massimo fino a Stravinskij, la contemporanea neanche sentirla, mi disturba, mi rende nervoso, per quale motivo penare?» Respighi sì, però: va matto per “I pini di Roma”. Perché «riesce a farmi vedere la natura. Ascolti le sue note e li senti ondeggiare, quei pini. Sensazioni, emozioni, incanto, questo è per me la musica, il melodramma».