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 2014  settembre 26 Venerdì calendario

OSSESSIONE ART. 18

La discussione sull’articolo 18 sì o no ci riporta alla casella di partenza. Non è importante un articolo, un totem ideologico, ma semplificare per dare garanzie a tutti...». Così parlava Matteo Renzi il 22 dicembre 2013, appena eletto segretario del Pd con una maggioranza schiacciante. «Non torniamo a discussioni ideologiche. La rivoluzione sul lavoro è possibile se tutti abbandoniamo le certezze. Altrimenti, se ripartiamo dal solito percorso, perdiamo la strada per tornare a casa». Dal programma per le primarie del 2013 e dalla prima versione del Jobs Act era scomparso ogni riferimento all’eliminazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, scritto nel 1970 e corretto da Mario Monti e Elsa Fornero nel 2012. Al punto che il senatore Pietro Ichino, tra i pochissimi a poter vantare una granitica coerenza sul tema, in estate aveva lanciato l’allarme: «L’impegno per il Codice semplificato e il contratto di lavoro a protezione crescente è improvvisamente sparito nel nulla?», aveva chiesto sul "Corriere" il 29 giugno. Ora che nell’ultima settimana sull’articolo 18 è riesplosa la guerra di religione a sinistra i due fronti, del sì e del no, sembrano tornati, come diceva Renzi, alla casella di partenza. Ma non è facile individuare quale sia. Perché negli ultimi anni favorevoli e contrari si sono scambiati più volte i ruoli. A dimostrazione che nel Pd, tra i sindacati e in Confindustria i totem ideologici si alzano e si abbassano a seconda delle convenienze del momento.
D’ALEMA FLESSIBILE. «Iscriviti alla Cisl!», grida una voce dagli spalti affollati. Ma è isolata, ricoperta dagli applausi. Quel pomeriggio al Palaeur di Roma va in scena il trionfo di Massimo D’Alema, segretario del Pds, contro il capo della Cgil Sergio Cofferati, diventato «più chiuso e più sordo che in passato», garantisce il lider Massimo. È il 22 febbraio 1997, gli inglesi non hanno ancora eletto Tony Blair a Downing Street, D’Alema ha 48 anni, è il leader giovane e forte che vuole cambiare la sinistra a costo di aprire uno scontro con il sindacato e un pezzo del suo partito. Ricorda qualcuno? Nel discorso di chiusura del congresso della Quercia, per la prima volta al governo con Prodi, D’Alema mette in discussione il dogma supremo della sinistra, l’intangibilità del contratto nazionale di lavoro: «La flessibilità è il modo con cui i giovani guardano al mondo del lavoro. Dobbiamo costruire nuove e più flessibili reti di rappresentanza. Altrimenti noi finiremo per rappresentare solo quelli che stanno in mezzo: quelli che non sono sufficientemente bravi per negoziare da soli o quelli che vivono nel mondo del lavoro nero e precario. E c’è un problema: sono sempre di meno». Il D’Alema di diciotto anni dopo sembra aver cambiato idea: «Non conosco nessuno che abbia deciso di non investire in Italia perché c’è l’articolo 18», ha ironizzato nel 2012. «È diventato un simbolo che si vuole abbattere per lanciare un messaggio ai mercati. Sono il nuovo Olimpo degli dei con le agenzie di rating che sono i loro messaggeri».
E MARIANNA BALLAVA CON SUSANNA. Il ministro della Pubblica Amministrazione Marianna Madia, per nove mesi responsabile Lavoro del Pd renziano, oggi benedice il Jobs Act: «È una riforma di sinistra», ha detto alla "Stampa" il 24 settembre. «Il diritto di reintegro sul posto di lavoro la mia generazione non l’ha mai conosciuto». Vallo a spiegare alla prima firmataria della proposta di legge del Pd del 22 luglio 2009 «per l’istituzione di un contratto unico di inserimento formativo e per il superamento del dualismo nel mercato del lavoro»: la proposta ufficiale del Pd di Pier Luigi Bersani. Chi era? Marianna Madia. Secondo firmatario Cesare Damiano, oggi presidente della Commissione Lavoro della Camera, agguerrito oppositore della riforma renziana. La Madia presentava la sua proposta come il massimo punto di accordo raggiunto dalle anime del Pd. «Abbiamo voluto stabilire un principio: il contratto a tempo indeterminato non può essere disgiunto dall’articolo 18. Questo per evitare il rischio di introduzione di deroghe, per mettere paletti ben precisi», spiegava all’"Unità" l’11 gennaio 2012. Non solo: aveva pubblicato un libro intitolato "Precari" affidando la prefazione a Susanna Camusso, imitata da Renzi nell’ultimo videomessaggio: per il premier la conservazione fatta persona. Principi e prefatrici derogabili per la Madia, evidentemente.
C’È DAMIAMO IN DANIMARCA. Cesare Damiano, ex sindacalista Fiom, capeggia il fronte del no all’abolizione dell’articolo 18 e polemizza con Ichino. Nel 2005, però, insieme a Tiziano Treu e al rifondarolo Paolo Ferrero volò a Copenaghen per studiare la flexsecurity danese. E ritornò entusiasta: «L’entrata e uscita dal mondo del lavoro qui non fa paura perché l’accesso a un altro impiego è garantito grazie al golden triangle, il triangolo dorato composto da Stato, sindacati e datori di lavoro. Conclusione: per «la forte protezione sociale la Danimarca è il modello vincente». Ora fanno paura i danesi.
ORFINI SI VOLTA. Matteo Orfini, sostenitore di Gianni Cuperlo contro Renzi al congresso, ha provato a correggere il suo premier-segretario: «Del Jobs Act mi piacciono i titoli, meno lo svolgimento». Ma picchia duro, in sintonia con Renzi, sui sindacati e sulla Cgil: «Sulla precarietà dei giovani il sindacato si è voltato in questi anni dall’altra parte. Trovo incomprensibile che il sindacato scioperi preventivamente. C’è una discussione difficile in corso, suggerirei di aspettare l’esito». E l’annunciata manifestazione della Cgil? «Me la guarderò in tv», sentenzia il presidente del Pd. Ben più pigro del Matteo Orfini che poco più di un anno fa (maggio 2013) si era messo in corteo per sfilare in piazza con la Fiom di Maurizio Landini: «Non si può non stare con i lavoratori in un momento così difficile per loro. La piattaforma della Fiom è composta di capitoli che non possono non essere alla base del nostro programma». Oggi Matteo resta a casa. E si volta verso il Matteo di Palazzo Chigi.
PIER LUIGI SENZA SCORCIATOIE. «Quel simbolo lì non si può buttare via. Il posto di lavoro è la garanzia della libertà delle persone». Bersani vanta sulla difesa dell’articolo 18 una lunga coerenza. E si propone come il leader della minoranza Pd anti-Renzi, numerosa nelle commissioni parlamentari dove sopravvivono deputati e senatori eletti nel 2013 e nominati dalla sua segreteria. Eppure anche lui finì sotto accusa, quando la Cgil di Cofferati nel 2002 manifestava al Circo Massimo contro Berlusconi e accusava la segreteria Ds di eccessiva timidezza. Nel programma elettorale del Pd 2013 si legge: «Per la ricomposizione del mondo del lavoro, non solo delle sue tutele, ma anche delle sue opportunità, nel riconoscimento delle oggettive esigenze di flessibilità e di competitività delle imprese, non vi sono scorciatoie... Serve un modello unico di contratto di lavoro». Senza toccare l’articolo 18, certo. Difficile da riassumere in un tweet. Ma, politichese a parte, non così lontano dal Jobs Act.
SQUINZI ARRIVA ULTIMO. La Confindustria ha cancellato l’abolizione dell’articolo 18 dalle sue priorità dal 2002, quando Antonio D’Amato fu sconfitto dalla Cgil cofferatiana. Le successive presidenze, divise su tutto, hanno concordato su un punto: mai più guerre di religione. «L’articolo 18 non è una questione dirimente, risulterebbero di maggior beneficio liberalizzazioni e privatizzazioni», assicurava Luca Cordero di Montezemolo. L’attuale presidente degli industriali Giorgio Squinzi ha conquistato la leadership di Confindustria sconfiggendo il falco Alberto Bombassei sull’articolo 18. «Bombassei è un signor imprenditore, ma sull’articolo 18 non la vedo affatto come lui. Per me la licenziabilità dei dipendenti è l’ultimo dei nostri problemi». Ora è tornato a essere il primo.E Bombassei, deputato di Scelta civica? Ha cambiato idea anche lui: «Non illudiamoci. Abolire l’articolo 18 non è la formula magica per far ripartire l’economia». E almeno questo si è capito.