Antonio D’Orrico, Sette 26/9/2014, 26 settembre 2014
NO TRUMAN NO PARTY TUTTA LA VERITÀ SU CAPOTE
George Plimpton era tante cose. Giornalista, scrittore, attore. Aveva una sua teoria. Per scrivere bene di una cosa devi conoscerla di persona e tentare di immedesimarti. Perciò salì su un ring contro un mediomassimo per raccontare la boxe e giocò allo Yankee Stadium per narrare il baseball. A metà degli Anni Novanta decise di scrivere la biografia di Truman Capote e per farlo ricostruì una specie di gigantesco cocktail party, quelle feste in cui Capote sguazzava come un pesce nel mare dicendo e ascoltando pettegolezzi con il sogno di trasformarli in un romanzo proustiano. Per l’occasione, George Plimpton si travestì da ospite di uno di quei party per sentire in che modo «diversi amici, nemici, conoscenti e detrattori ricordano la vita turbolenta» del maestro di A sangue freddo. Ne venne fuori un libro meraviglioso che non era stato tradotto in italiano (lo ha fatto ora Garzanti, Truman Capote) sull’uomo che «scriveva le frasi più belle della nostra generazione», come disse Norman Mailer, uno che non lo amava. Ecco qualche pettegolezzo su di lui.
Sua madre? Si chiamava Lillie Mae Faulk, detta Nina. Da ragazza fu miss Saponetta Lux, aveva vinto l’omonimo concorso di bellezza. Truman, ballista come al solito, preferì spacciarla per Miss Alabama.
Nina era una madre snaturata. Lasciò il figlio ai parenti a Monroeville e partì per New York dove si risposò con il più affascinante e benestante (lavorava nel ramo delle lenzuola) Joseph G. Capote, cubano amante della bella vita e del gioco d’azzardo. Truman fu cresciuto dalla famosa zia Sook che gli faceva le torte e che, da bambina, aveva sofferto di febbre tifoide e forse non c’era più tanto con la testa. Zia Sook viziò quel bambino bellissimo dai capelli d’oro e dalla carnagione perfetta. Lo vestiva come un piccolo lord e, a volte, su sua richiesta, come una piccola lady.
L’amica d’infanzia di Truman si chiamava Nelle e sarebbe diventata la celebre Harper Lee di Il buio oltre la siepe. Tutti si sono sempre chiesti (e lo fa anche George Plimpton) come è possibile che in un posto come Monroeville, abbandonato da Dio e dagli uomini, siano nati due tra i più grandi scrittori americani del Novecento. A questo proposito circolano due teorie: 1) che quella brava era Nelle e che fu lei ad aiutare Capote a scrivere A sangue freddo; 2) fu Capote ad aiutare Harper a scrivere Il buio oltre la siepe, tanto che poi lei, quando tra di loro si raffreddarono i rapporti, non scrisse più niente. Harper Lee vive ancora, quasi novantenne a Monroeville, ma non parla con nessuno e tiene sempre abbassate le veneziane delle sue finestre. Non parla soprattutto di Capote (qualsiasi cosa questo voglia dire).
Le ceneri di Nina. Da bambino Truman andava a casa di Nelle e giocava con il padre di lei, un uomo colto e severo, a chi inventava la frase più bella usando parole che iniziano con la stessa lettera: «Il sole splendente sprofonda nella sabbia». Già a otto anni, Capote aveva deciso di diventare scrittore e questa non è una delle sue solite balle ma la pura verità. Il destino esiste.
Prima di lasciare per sempre Monroeville va ricordato che nel cimitero c’è la tomba dello scrittore (anche se non è sepolto lì) e sulla lapide la data di morte è sbagliata di un giorno.
La mamma gli mancava ma lui non mancava a lei. Capote diceva che la tragedia della sua vita stava in una scena: lui a due anni che si svegliava solo in un albergo sconosciuto. Gridava per chiamare qualcuno ma nessuno rispondeva. I suoi genitori erano fuori a ballare e a bere.
A Nina piaceva la bella vita ma la bruciò presto. Si suicidò a 39 anni perché Joe Capote era finito a Sing Sing per appropriazione indebita. Una delle sue ultime frasi, detta a un’amica, fu: «Non ci sono rimasti più soldi e sto usando gli ultimi resti dei miei rossetti».Truman la fece cremare (si dice per vendetta, perché Nina non avrebbe mai voluto che si facesse una cosa del genere al suo corpo adorato) e depositò le ceneri in un mausoleo apposito ma si dimenticò (Freud!) di pagare l’affitto e così le ceneri furono buttate via. Niente più di Lillie Mae Faulk, detta Nina, è conservato su questa terra. È quella che i latini chiamavano damnatio memoriae.
A quindici anni Capote, che intanto aveva raggiunto la mamma a New York, chiese a Phoebe Pierce Vreeland, futura giornalista, di sposarlo. Ma lei si mise con un altro e Truman calpestò la sua foto. Qualche anno dopo Truman si fidanzò con Newton Arvin, coltissimo e austero prof di letteratura, travolto poi da uno scandalo quando gli trovarono in casa delle foto porno (soggetti maschili, niente di speciale: tipo le pubblicità alle mutande di Calvin Klein o Armani che oggi vediamo tranquillamente sui muri delle città). Fino alla morte Arvin tenne sul comò un nudo di Truman a 18 anni in posa da bodybuilding.
Sdraiato mollemente su un divano, «terribilmente giovane e vulnerabile». Fu questa, invece, la posa che Truman scelse per la quarta di copertina del suo primo romanzo, Altre voci, altre stanze. Un colpo di genio dal punto di vista del marketing (ma il marketing della casa editrice non c’entrava nulla, l’idea fu di Capote). Diventò così uno scrittore famoso, d’altra parte nell’ambiente si parlava di lui come una grande speranza dai tempi in cui (a vent’anni, nel 1944) fu assunto al New Yorker, tempio della letteratura americana, in qualità di fattorino (tra le sue mansioni quella di temperare le matite ai grafici).
Sulla sua carriera, Capote aveva le idee chiare (da quando aveva otto anni). Nelle lettere agli amici proclamava: «Un giorno scriverò un bestseller e comprerò un castello in Italia (ho sentito che vengono via a poco)». Scrisse il delizioso Colazione da Tiffany. La rivista Harper’s Bazaar non volle farlo uscire a puntate per paura che la gioielleria Tiffany ritirasse la pubblicità. Ma ufficialmente dissero che fu perché nel testo c’era la parola «lesbicaccia» e Capote non aveva voluto toglierla. Il grande appuntamento con il bestseller (in realtà con qualcosa di molto più grande e terribile) era fissato (il destino esiste, quello di Capote in particolare) a una data precisa: il 15 novembre del 1959, quando in Kansas, in un posto remoto (tanto quanto la sua Monroeville), fu sterminata una famiglia di agricoltori (padre, madre, figlio e figlia). Capote, che sospettava da tempo che il giornalismo fosse una forma negletta di letteratura, vide in quella tragedia l’occasione di dimostrare che un grande reportage poteva diventare uno straordinario romanzo. E fu così che scrisse il Delitto e castigo del Novecento.
Fino al patibolo. Ci vollero sei anni per finire quel capolavoro. Alvin Dewey, uno dei detective, dice che «Truman vedeva sé stesso in Perry Smith. La loro infanzia era stata molto simile ed erano più o meno della stessa altezza e corporatura». Perry Smith era uno dei due assassini, l’altro era Dick Hickock. Capote diventò loro amico. Li seguì fino alla notte (buia e piovosa, con un cane lontano che non smetteva di abbaiare) dell’esecuzione per impiccagione, il 14 aprile del 1965. Truman seppe tutto dei due condannati compreso il menu dell’ultima cena di Dick: gamberoni e gazzosa alla fragola. Lo scrittore vide impiccare Hickock. Un lavoro ben fatto. Il capitano delle guardie era un esperto del ramo avendo partecipato alle esecuzioni dei criminali di guerra nazisti a Norimberga. Poi aspettò che venisse il turno di Perry ma, all’ultimo, non ce la fece e uscì. Si dice che Perry e Truman erano diventati amanti e che lo scrittore aveva pagato profumatamente una guardia perché li lasciasse in pace durante i lunghi colloqui per la preparazione del romanzo.
Di sicurò Capote pagò le due lapidi per gli assassini. I condannati a morte non hanno diritto alla lapide ma lo scrittore ne fece fare due. Le lapidi furono poi rubate e non sono state più ritrovate. Dopo l’esecuzione Truman ricevette una lettera d’addio di Perry lunga cento pagine. L’ultima frase dice: «E all’improvviso mi accorgo che la vita è il padre e la morte è la madre». Una frase che Capote trovò straordinaria. Come effettivamente è.
L’esito di A sangue freddo fu clamoroso. Quasi tutti gridarono al capolavoro. Qualcuno allo sciacallaggio: di Capote nei confronti dei due assassini (pare che quando fu certa la notizia dell’esecuzione lo scrittore inscenò un balletto perché era il finale giusto per il romanzo). Ma quel libro fu anche la rovina di Truman. Chi dice perché l’esperienza terribile vissuta lo segnò per sempre e ruppe qualcosa dentro di lui. Chi dice perché il successo anche economico gli fece perdere il senso della misura.
Comunque qualcosa di definitivo accadde. Qualcosa che è sintetizzato nella scena che si svolse quando lo scrittore tenne una lettura del romanzo a New York. La sala era tutta esaurita. Tutti gli occhi si girarono su Capote quando apparve sul palco. «Uscì, vestito con un cardigan bordeaux e pantaloni di flanella grigi, poi si fermò e si fece guardare da tutti. Girandosi in modo che ognuno lo vedesse bene, si mise gli occhiali e si strinse nelle spalle. «Be’, questa è la fine della vanità». Dopo un attimo iniziò a leggere. E naturalmente tutti rimasero ipnotizzati».
Come Montecristo. Sulla vanità, sulla mondanità lo scrittore costruì molta della sua leggenda. Non mancava mai nei salotti e sugli yacht più esclusivi. Era il beniamino dei ricconi (uno di loro, il banchiere Guinness, disse di lui alla moglie: «Teniamolo su una mensola del caminetto»). Era un ninnolo. E ne era consapevole: «Sono un fenomeno da baraccone. Le persone non mi vogliono bene. Sono affascinate da me, ma non mi vogliono bene». Ma sapeva anche un’altra cosa: «Certe persone uccidono con la spada, certe altre con le parole». Secondo alcuni, Capote frequentò il bel mondo per vendicarsi di come quel mondo aveva trattato sua madre, che aveva sempre aspirato a farne parte. Una specie di conte di Montecristo. E così per anni raccolse appunti per il romanzo proustiano che doveva sputtanare la jet society. Preghiere esaudite, il libro che metteva in piazza tutti i loro segreti. Le cose che gli avevano confessato come a uno psicoanalista. Quel libro non fu mai completato. Il poco che uscì bastò però a isolarlo e bandirlo. I suoi cigni, così chiamava le sue amiche dai lunghi colli modiglianeschi, le preziose e inarrivabili Babe Paley, Marella Agnelli, Gloria Vanderbilt, Gloria Guinness, Lee Radziwill (la sorella di Jacqueline Kennedy), si sentirono tradite, gli voltarono le spalle, quelle spalle che aveva pugnalato.
Diventò un relitto umano. Ingrassato, paranoico, cocainomane, beveva Martini dalla mattina presto, rubava vodka dai frigoriferi dei pochi amici rimasti e bagnava il letto. E ascoltava, come sempre nei momenti di più cupo sconforto, Good Morning Heartache di Billie Holiday. Morì e l’ultima parola fu, a quanto pare: «Mamma». Fu sepolto al cimitero di Westwood, lo stesso di Marilyn Monroe, sulla quale aveva scritto uno dei suoi articoli più belli.
Lettera di Francesco Censi