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 2014  settembre 26 Venerdì calendario

PER COLPA DELL’IPNOTICA REBECCA ASSOLVIAMO UN ASSASSINO


Daphne du Maurier smentì sempre, categoricamente e sdegnosamente, la diceria secondo la quale sarebbe stata lei a ricamare con le sue mani il gagliardetto delle truppe aviotrasportate inglesi – un Pegaso azzurro in campo granata – che suo marito fece issare sulla propria jeep appena atterrato in Olanda il 17 settembre 1944. Suo marito era il quarantasettenne (lei aveva dieci anni di meno) generale (più tardi sir) Frederick “Boy” Montague Browning, ossia l’impeccabile ed elegantissimo ufficiale al comando della più grande operazione aviotrasportata – due divisioni americane e una inglese – della Seconda guerra mondiale. Con la quale Eisenhower e Montgomery si proponevano di attraversare l’Olanda, prendere il ponte di Arnhem sul Reno e da lì entrare in Germania. E che viceversa si concluse con un disastro, un clamoroso fallimento. Ma non per colpa di “Boy” Browning, che fin da principio aveva fatto notare come quel ponte, ultimo di una lunga serie, gli sembrasse un po’ troppo lontano.
In ogni caso, la ragione per la quale Daphne rifiutava la paternità (o maternità?) del gagliardetto era l’aura piccolo borghese che ne emanava, il modesto interno con l’immagine della mogliettina devota intenta ad agucchiare, il patriottismo da cartolina. A parte i rapporti, tormentati ma alla fine durevoli, con “Boy” (la mogliettina non era poi così devota...), Daphne rifiutava per sé quel ruolo da ausiliaria. Lei era tutt’altra cosa, non certo una donnetta qualsiasi.
Era la discendente, terza generazione, di una famiglia di artisti. Era una scrittrice riconosciuta dal 1931, ma con Rebecca del 1938 aveva raggiunto successo e fama internazionali. Ulteriormente accresciuti dal film, interpretato da Joan Fontaine e da Laurence Olivier, che nel 1940 ne aveva tratto Alfred Hitchcock. E che aveva vinto due Oscar nel 1941, per il miglior film e per la miglior fotografia.
Ma la grande fortuna di Rebecca (infelicemente tradotto nel 1940 in italiano con la pedestre aggiunta La prima moglie), dipendeva in larga misura dal personaggio principale, Max de Winter, l’aristocratico inglese proprietario di Manderley, presentata come «la più bella tra le grandi dimore patrizie». E se Manderley è modellata su Menabilly, la country house in Cornovaglia dove Daphne e la sua famiglia risiedettero per oltre vent’anni, non c’è dubbio che il modello su cui è costruito Max de Winter è “Boy” Browning. Secondo il generale Urquhart, un suo sottoposto, Browning era come “un falco inquieto”. E al di là delle somiglianze di superficie è proprio questa caratteristica di perenne irrequietudine e insieme di pericolosità imminente a costituire il tratto decisivo di Max de Winter e insieme la sua nascosta affinità con Browning.

Sospetti e pregiudizi. Quel che ha tratto in inganno tanti svalutatori della du Maurier, tanti sospettosi (e invidiosi) della sua popolarità, tanti che l’hanno in sostanza liquidata come un’autrice rosa a cinque stelle lusso, è stato l’involucro esteriore della sua narrativa. Cioè il ritorno all’archetipo più facile e per questo più efficace, il remake di Cenerentola.
Oltre naturalmente al doppio, tenacissimo pregiudizio nei confronti della narrativa dedicata (o apparentemente dedicata) al pubblico femminile e baciata dal grande successo. Di fatto in Rebecca la favola – il principe che ama, sceglie e sposa l’ingenua e brava ragazza – occupa solo l’inizio, circa un quinto, del romanzo e comunque non ne costituisce affatto il perno centrale. Quando la ragazza, che è la voce narrante e che la du Maurier lascia nel più completo anonimato, mette piede a Manderley, cioè sulla scena principale, si abbandona l’involucro più esterno e si scende a uno strato più profondo. Dove i sentimenti dominanti diventano l’imbarazzo e il disagio che si tramutano presto in ansia e infine angoscia. C’è una presenza, nella grande casa, c’è ancora Rebecca, la moglie scomparsa di Max. Altro che favola rosa! Cambia il genere e cambiano i modelli. Dietro la vita a Manderley c’è Jane Eyre, la narrativa gotica e il frequentato motivo della madwoman in the attic, della matta nel solaio. Con la differenza che qui Rebecca non si nasconde da qualche parte, è sicuramente morta. E che dunque la sua presenza, alimentata certo da tutto ciò che di Rebecca è rimasto – dai vestiti agli oggetti, ai ricordi – è tuttavia solo mentale, interiore. La ragazza ora seconda moglie, attraverso i cui occhi noi guardiamo, vede in tutti, ma soprattutto in Max, gli indizi della propria sconfitta, l’irrimediabile strazio della perdita, l’ineguagliabilità di Rebecca.
Questo fin quando non si scende al terzo, e risolutivo, strato, che non è più colorato di rosa, bensì di giallo. Con una mossa brillantissima e minuziosamente calcolata, tutto si inverte, tutto si capovolge, tutti gli indizi cambiano di segno. Max non solo non si dispera per la perdita di Rebecca, ma l’ha addirittura uccisa.
La sua cupezza dipende non dal dolore, ma dal timore per quel delitto nascosto. E l’ha uccisa perché Rebecca lungi dall’essere quella vetta di perfezione era un abisso di vergogna. Per fortuna (sua, s’intende...) Max potrà alla fine andare esente da ogni sospetto, libero di condurre una vita non più angosciata anche se pur sempre inquieta.
Rebecca è un congegno narrativo pressoché perfetto. La du Maurier non ha una visione dogmatica dei generi. Li usa e li mescola a seconda delle sue necessità, non se ne fa usare e dominare. A ben vedere, Rebecca è un vero capolavoro di tecnica mista. Giunge al punto di portarci per mano a parteggiare per un assassino. Se usciamo dall’alone ipnotico creato dalla du Maurier, Max de Winter non ci appare una figura né particolarmente affascinante né particolarmente commendevole. Passa il suo tempo ad accarezzare i suoi fiori, ad annusare il salmastro della marea e a bere il tè tutti i giorni alle quattro e mezzo. Si può anche capire che la povera Rebecca tenesse un pied-à-terre a Londra dove svagarsi un po’.

L’inquietudine e la sensualità. Questo è il vergognoso segreto e per questo lui la uccide. Ma la du Maurier, che pure di simili traffici aveva qualche contezza, condanna la sventurata e assolve il bel signore. E noi la seguiamo trepidando quando l’impunità di Max sembra messa a rischio. Eppure in tutto questo sciorinamento di letteratura come tecnica vi sono tocchi di autenticità, si sente a volte vibrare qualcosa che va oltre l’assoluta padronanza del mezzo, qualcosa di vero. È il senso di inquietudine – il falco inquieto –, l’allarme trattenuto ma continuo, la lingua di fuoco nevrotica che percorre tutto il libro ed erompe – e si placa – alla fine nel grande e simbolico rogo che carbonizza e distrugge Manderley. È la repulsione/attrazione per una vita vegetale che nel sogno in apertura del romanzo diventa contorta, avvolgente, lubrica: rododendri avvinghiati e lillà accoppiati con faggiole. Sensuale se non esplicitamente sessuale. Quasi che Rebecca, uccisa nella casetta sulla baia, trovasse qui – nell’intimo, nel profondo, assai più che nelle iniziali svolazzanti lasciate dovunque – una sua perdurante vita e una sua postuma vittoria.

13 – continua