Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 26 Venerdì calendario

DA BAMBINO SOGNAVA LA JUVE

Manoppello è cento case in cima a una salita. Il parcheggio di fronte alla chiesa, le signore con le sedie davanti alle porte, i ragazzi che giocano a carte nei bar. Marco Verratti è cresciuto lì, giocando a calcio tra i vicoli e nelle piazze per ore, pomeriggi, giorni: «Era sempre l’ultimo ad andare via, finché c’era un amico non smetteva – racconta Lidia, mamma appassionata di calcio -. Gli urlavo dalla finestra di tornare a casa, lui diceva no due o tre volte, poi arrivava». Parigi è diversa, giusto un po’, ma la scena è la stessa: «A volte prendiamo la palla e scendiamo per strada, anche se siamo in Francia e Marco ormai è un calciatore – dice Alessandro, un cugino -. Si gioca con il pallone, con una lattina, con quello che capita. Non ci hanno mai detto niente». Il bello del talento è che non viene distribuito in modo uniforme. Nel 1992 è scappata una dose extra in un paesino in cima a una salita e Al Thani, uno sceicco del Qatar, è dovuto salire fino a Manoppello per trovare un centrocampista da portare a Parigi.

Sacre vittorie Verrattino, secondo di due figli, è cresciuto in fretta. La mamma racconta. A nove mesi, i primi tiri: «Non camminava ancora, ma già calciava. Io lo tenevo per le mani e lui pum, pum, colpiva il pallone». A nove anni, la fuga dalla prima comunione: «Dopo la cerimonia è corso a giocare due tornei nel pomeriggio. Pulcini e Piccoli Amici: due vittorie». C’è stato un momento in cui Zeman gli ha cambiato ruolo e la gente non capiva: ma Verratti è trequartista o playmaker? A Manoppello nessuno si è posto il problema: «Marco è sempre stato il calciatore che vedete – , dicono Nino Di Carlo e Luigi Addario, due allenatori al Manoppello Arabona -. Giocava a tutto campo, lo vedevi pressare in attacco e poi farsi dare la palla in difesa». Una volta, pur di sfuggire al turnover, ha chiesto di fare il portiere, come nelle prime partite con i ragazzi grandi del paese. Quel giorno gli hanno detto no: panchina.

Verrattinho e la traversa Marco nella camera di Manoppello ha avuto anche un poster di Pagliuca ma la verità negli anni si è saputa: da bambino era juventino, matto per Del Piero. Nel 2004, quando Ale giocava l’Europeo, Marco veniva chiamato per le partite di calcetto con gli amici di Stefano, il fratello maggiore. Quintino di Rocco, che ha allenato entrambi, dice che il primo dei Verratti era una seconda punta mancina niente male, con talento paragonabile a quello del fratellino, ma nei giorni del calcetto la differenza era già enorme: «Marco aveva 12 anni ma nel campo a cinque si metteva al centro e calciava verso le due porte, cercando di colpire la traversa – ricorda Stefano -. La prendeva quasi sempre. A quell’età lo abbiamo portato a un torneo di diciottenni ma dopo pochi minuti lo abbiamo tolto: troppo superiore». Da quel giorno sono passati dieci anni, Marco ha avuto un figlio, non ha mai preso la patente e ha continuato a pensare al calcio: «Ho capito quanto ci teneva quando mi ha chiesto di non andare in gita con la scuola per non saltare un allenamento – dice mamma Lidia -. Quasi a ogni torneo vinceva una coppa e ogni volta mi chiedeva di nasconderla sotto il mio giubbotto. Si vergognava con la gente del paese». La Champions, con quelle orecchie, è ingombrante. Nel caso, meglio comprare un cappotto XXL.