Nicola Imberti, Il Tempo 26/9/2014, 26 settembre 2014
«IO, KILLER MANCATO»
In inglese le chiamano «sliding doors». Sono gli incroci della vita. Pochi secondi, una scelta, una porta si apre, un’altra si chiude, e il presente cambia inesorabilmente il futuro. L’«incrocio» di Francesco «Franco» Viviano, grande inviato di Repubblica, è datato 26 marzo 1966. Quel giorno a Palermo, la «sua» Palermo dove era cresciuto tra «poveracci, borsaioli, scippatori, rapinatori, ricettatori ma anche persone perbene», piove. E lui, per più di qualche secondo, rischia di diventare un killer.
Non è un modo di dire. Il 26 marzo 1966 Viviano è a due metri dal «signor Puccio». Ha in mano una Taurus a tamburo di fabbricazione brasiliana, il colpo in canna. La mano gli trema, ha solo 17 anni, ma è pronto ad uccidere. Per vendetta.
La colpa è di un altro «incrocio» della sua vita. Uno in cui non era stato lui a scegliere. La data non è casuale: 26 marzo 1950. Quella notte due carabinieri bussano alla porta di una casa con una sola stanza in vicolo Arena 12. Lì Viviano vive con la mamma Enza, il papà Totò, e un «popolo» fatto di nonni (paterni) e zii. Lui ha poco più di un anno. E quella notte diventa orfano di padre. Totò, 22 anni, viene ucciso con tre colpi di pistola alla testa. L’assassino è il «signor Puccio».
Inizia così, con questi due episodi, «Io, killer mancato», libro autobiografico (Chiarelettere, 160 pagine, da oggi in libreria) in cui Viviano ha voluto raccontare la sua incredibile storia. Quella che da assassino mancato lo ha portato a diventare uno dei migliori giornalisti italiani, autore di scoop che hanno segnato la storia del Paese.
Non è stato un percorso facile. Viviano è nato e cresciuto tra i quartieri dell’Alberghiera e al Villaggio Ruffini. Fianco a fianco con amici che nel tempo sarebbero diventati «uomini d’onore», mafiosi. Suo padre è morto ammazzato perché era un ladro che aveva fatto l’errore di rubare alla persona sbagliata. Per molti tutto questo è una condanna senza appello. Perché un uomo con questo curriculum dovrebbe essere qualcosa di diverso da un killer?
Risposta semplice: per sua madre Enza. È lei che resiste al ricatto della mafia. Anche quando è difficile farlo. Anche quando il «signor Puccio» si offre di «riparare il danno» prendendosi cura di lei e di suo figlio. «Il sangue di mio marito non si vende» risponde secca.
Quel coraggio, i sacrifici fatti per mantenerlo e permettergli di studiare permetteranno a Franco di superare indenne un altro «incrocio». Succede quando il suo amico Totino Micalizzi (che anni dopo diventerà il numero due del boss Rosario Riccobono) gli propone una rapina. Viviano ci pensa ma all’ultimo minuto si tira indietro.
«Pensai a mia madre - racconta - "Se per caso mi arrestano o mi uccidono, cosa ne sarà di lei?"» Mai scelta fu più azzeccata. Il colpo va male e i suoi amici cominciano quel percorso che, da un carcere all’altro, li trasforma in «boss, ergastolani, morti ammazzati o scomparsi di lupara bianca durante le guerre di mafia di anni Settanta e Ottanta».
Ma l’essersi salvato non lo «consola». «Non sopportavo di essere orfano e povero per forza - scrive in un altro passaggio del libro -. Quando sentivo qualcuno dire che la predisposizione alla delinquenza è genetica mi veniva da strangolarlo. Ero il figlio di un ladro ammazzato a ventidue anni, che andava a rubare per sfamare me e mia madre. Ero cresciuto dove molti erano costretti a infrangere la legge per sbarcare il lunario perché non avevano un lavoro, ma nel mio dna non c’era scritto "rapinatore", "mafioso" o "killer". Non volevo imboccare nessuna di quelle strade. Ma non era facile. Ogni giorno era una guerra. Mi chiedevo che cazzo di futuro avrei potuto avere in quell’ambiente».
La svolta arriva nel febbraio 1970. Francesco, grazie alla madre che, tra le altre cose, fa le donna delle pulizie nel «grattacielo di via Emerico Amari» dove ha sede l’ Ansa , diventa fattorino dell’agenzia. Arriva la prima sicurezza economica. Si sposa, nasce il suo primo figlio, ha una casa di 85 metri e comincia a far carriera. Nel 1975 diventa «telescriventista». Inizia ad incontrare e conoscere «alcuni mostri del giornalismo italiano». Da Giampaolo Pansa a Francobaldo Chiocci, da Giorgio Bocca a Adriano Baglivo e tanti altri.
Sogna di diventare come loro e comincia a darsi da fare. Nel 1978 diventa corrispondente del settimanale Tuttociclismo , organo della Federazione ciclistica italiana. Comincia a collaborare con il Giornale di Sicilia e L’Ora di Palermo. Il 26 gennaio 1978, assieme al cronista Mario Francese (anni dopo verrà ammazzato da Cosa Nostra ndr ), si trova a raccontare il suo primo omicidio di mafia: il vicepretore onorario di Prizzi, Ugo Triolo, ammazzato a Corleone.
Per chi è cresciuto al fianco di «uomini d’onore». Per chi ne conosce il modo di pensare e di fare, non è difficile muoversi in quella Palermo bagnata dal sangue delle faide tra famiglie rivali. Viviano fa scoop, scova retroscena e notizie inedite. Segue passo dopo passo i grandi processi di mafia che si aprono nell’aula bunker dell’Ucciardone. Lì ritrova vecchie conoscenze, ma conosce anche uomini straordinari come Paolo Borsellino e Giovanni Falcone. Nel 1984 viene assunto all’ Ansa . Nel 1985 comincia a collaborare con Repubblica dove viene assunto nel 1998. Riceve più volte il premio «cronista dell’anno».
È lui, ad esempio, a scrivere per primo, nel 1994, dell’operazione «Oceano» che vedeva coinvolto Silvio Berlusconi. Nel 1997 intervista Vito Roberto Palazzolo, ritenuto il cassiere di Cosa Nostra. Nel 2004 viene inviato in Afghanistan e anche lì diventa «scomodo» per aver scritto che Al Qaeda ha impartito a 300 guerriglieri ceceni l’ordine di attaccare «gli invasori italiani stanziati a Nassiriya». Un pezzo che gli costa una perquisizione in tenda.
Il 17 luglio 1998, ottiene e pubblica in prima pagina su Repubblica l’identikit di Bernardo Provenzano. Il 23 febbraio 2005 racconta dell’intervento subito dal boss a Marsiglia dove si era recato con documenti falsi. Il 3 aprile 2006, pochi giorni prima dell’arresto di Provenzano, Massimo Ciancimino consegna a Viviano il suo testamento in cui autorizzava il proprio legale a consegnare a lui il «papello» in caso di morte.
I boss lo sopportano a fatica. Nei vent’anni che vanno dal 1970 ai primi anni ’90 Franco teme anche per la sua vita. Ma il vero «sgarro» alla mafia lo compie nel dicembre del 2007 quando scrive, assieme alla moglie-collega Alessandra Ziniti, due pagine con i pizzini che i latitanti Salvatore e Sandro Lo Piccolo inviavano dal loro covo. A far arrabbiare i mafiosi sono alcune lettere d’amore ricevute da Sandro. Lettere che testimoniavano una relazione clandestina.
Si potrebbe continuare all’infinito (Viviano è anche colui che ha intervistato Marcello Dell’Utri ricoverato in ospedale a Beirut). Ma forse la miglior sintesi della sua vita è la domanda che gli rivolge il suo vecchio amico, mafioso, Tano quando lo incontra dopo tanti anni: «Ma lo sai che tu dovevi diventare come noialtri?» Non è stato così. Perché quel 26 marzo 1966 Francesco non ha sparato.