Sergio Rapetti, Libero 26/9/2014, 26 settembre 2014
SVETLANA ALEKSIEVIC «LA SINDROME DI STOCCOLMA» DEI RUSSI SOPRAVVISSUTI ALL’URSS
«L’Urss è scomparsa ma noi siamo rimasti»: questa l’istanza che può accomunare quella ancora numerosa parte della popolazione dell’ex Unione Sovietica in grado di testimoniare dall’interno, per averlo vissuto, il trauma causato dal repentino crollo - per molti, insieme alle proprie aspettative - della loro potente nazione. Essa era estesa su due terzi dell’emisfero occidentale del globo, 11 fusi orari, e il suo influsso sulle sorti del mondo intero era stato non inferiore alla grandiosa estensione geografica e alla potenza politica e militare. L’Urss è stata portatrice di un progetto totalitario che Aleksievic nel libro Tempo di seconda mano. La Russia dopo il crollo del comunismo (Bompiani) definisce «l’insensato progetto di rifare l’uomo “vecchio”, l’antico Adamo». E per realizzarlo ha applicato ai propri sudditi tutti i possibili strumenti della coercizione e del condizionamento. Svetlana Aleksievic aveva esplorato per decenni, registrandole su nastri e taccuini dal racconto dei propri connazionali, le drammatiche vicende dell’Unione Sovietica da diverse angolazioni, realizzando una mezza dozzina di «romanzi di voci», libri-reportage sulla seconda guerra mondiale, sulla «spedizione» militare durata 10 anni in Afghanistan (la tragedia di mogli e madri di militari di leva spediti laggiù, senza che neanche conoscessero la propria destinazione), sulla vita degradata delle campagne sovietiche, il disastro nucleare di Chernobyl’ e i suoi misconosciuti eroi, sulla sincera disperazione, infine, di tanti «costruttori» della promessa «nuova civiltà» finita invece nella «discarica della Storia». Quelle tracciate da Aleksievic (di padre bielorusso e madre ucraina, ma scrittrice di lingua russa) anche nel suo nuovo ultimo libro sono tutte sequenze «in viva voce» di un’epocale vicenda collettiva, e vi corrispondono adeguatamente, anzitutto perché i suoi protagonisti-narratori sono in grado di farne rivivere l’ampiezza geografica - dalle capitali ai più sperduti villaggi, dalle foreste siberiane alle ardenti sabbie dell’Asia centrale - che essi hanno percorso come pionieri o forzati del Gulag in mezzo a feroci guerre e carneficine. Anche la dimensione temporale è ampiamente rappresentata: da Lenin a Stalin, dalla guerra civile alla seconda guerra mondiale e oltre, fino al relativo sollievo di epoche meno cruente di quella comunista e anzi foriere di nuove grandi speranze, però destinate a deludere, al pari di quella che le aveva precedute, e si parla di Gorbacëv e El’cin e dei nostri giorni. Al di là delle coordinate spazio-temporali, atte comunque a definire, se si vuole, un paesaggio sociopolitico articolato e denso di elementi significativi da un punto di vista storiografico, l’adeguatezza della fatica letteraria di Aleksievic va piuttosto valutata nella sua corrispondenza al programma ch’ella stessa si è dato: restituire con veridicità la vita del «piccolo uomo» (e donna) nella Grande utopia. La quotidianità delle persone si situa in una temperie perennemente fuori dall’ordinario, sempre tra «stato d’emergenza e guerra guerreggiata». Un’eccezionalità e una densità di accadimenti che, nel bene e nel male, conferisce a tante esistenze anche ordinarie, un significato che le trascende. Di questo è persuasa Svetlana: «Noi siamo il cielo, non la terra» e con i piedi comunque stabilmente piantati nella realtà e gli occhi affissi in quelli dell’interlocutore, Aleksievic cerca in questa «ordinarietà straordinaria» la pagina, il rigo, l’accento, almeno il sentore di quel «cielo» della grande letteratura che per lei «deve» essere presente in ogni racconto di vita vissuta. Va solo còlto, con la pazienza di chi cerca i moti del cuore, ma con tutti i sensi ben all’erta, come fa lei, nei recessi della memoria e della coscienza dei tanti interlocutori. Così annota e rileva quell’«odore delle mamme» che aleggia nella baracca-dormitorio delle recluse e che l’orfanella, relegata in terre inospitali al pari della «nemica del popolo» che è sua madre galeotta, cerca di captare per sincerarsi ch’ella sia ancora viva e presente. È, quell’odore, il drammatico preannuncio di un’esistenza che sarà tutta sotto il segno dell’orfanezza. Così, il disgusto del carnefice di ieri per le pietanze di pesce, perché non sa eliminare dalla memoria il ricordo delle chiatte gremite di nemici nella guerra civile, legati tra loro col filo di ferro e gettati appunto «ai pesci», è indizio di un’inquietudine che finirà per smascherarlo, a chi lo interpella, in tutta la sua demenza, ormai senile, ma incistita sul delirio giovanile di un’ideologia assassina. L’odore della sabbia e delle stipe dei luoghi di confino dei deportati, quello acre del sangue, quello nauseabondo della carne umana che brucia… La lontana e vittoriosa guerra civile dei bolscevichi e quella in nome della Patria, altrettanto vittoriosa, contro l’aggressore tedesco, sono per buona parte degli interlocutori di Svetlana Aleksievic quasi gli unici ricordi luminosi dell’intera loro esistenza, perché legati a un nobile intento e sostanziati da comportamenti fraterni tra compagni e commilitoni. Gli «errori» del passato non inficiano il loro «credo» che resta comunque per essi preferibile sul piano morale e pratico, anche oggi, alla meschinità e il grigiore e la grettezza del solito vecchio mondo capitalistico, individualistico e borghese che secondo loro ha malauguratamente finito per prevalere anche nell’ex Urss. Sono questi, sommariamente, i connotati psicologici del «sovietico duro e puro» tipico, sopravvissuto al crollo dell’Urss. In questa sua più recente fatica, Aleksievic mette anche lui, l’homo sovieticus, al centro della scena, con eguale dignità di altri primi attori, e ne raccoglie abbondantemente confidenze, confessioni, pentimenti che lo riguardano. Non giudica questi suoi personaggi, li lascia raccontare, senza quasi mai interloquire, perché di questo popolo sovietico, vittima e carnefice di se stesso, si sente anche lei parte. L’educazione, le illusioni dure a morire, l’inerzia di un ferreo conformismo indotto dalla paura, hanno forgiato anche la sua mentalità. Lei è però tra coloro che, per dirla con Anton Cechov, a un certo punto si sono dedicati a «spremere via goccia a goccia lo schiavo» che era in loro: come una piaga infetta da sanare. E tutta la laboriosa esistenza e le opere, a lungo contrastate in patria, di Svetlana Aleksievic sono lì a testimoniarlo. Malgrado ciò, e i tanti attriti e scontri, a motivo dei suoi libri, con il regime sovietico allora (e tuttora) vigente in Bielorussia, e gli anni passati in Francia, Italia, Germania sotto l’egida e la protezione della comunità dei colleghi scrittori, dopo il crollo dell’Unione Sovietica, Aleksievic, con rara onestà intellettuale, non si è dedicata a riscrivere la propria biografia accampando meriti in quel «dissenso» che ha propiziato la perestrojka e contribuito alla dissoluzione dell’Urss. No, Aleksievic rende il dovuto all’eroismo di quelli che l’hanno fatto radicalmente mettendo in gioco la vita, ma si confessa - per eredità genetica. formazione e appartenenza - «complice» del sovietismo. Ed è l’appartenenza di lei al popolo sovietico, alla sua lingua e costumi, al suo dolore e alla sua disillusione, alla sua tragedia lunga ormai un secolo a far sì che tanti interlocutori le si siano aperti con fiducia e confidenza. Già sul versante dei nostalgici ed eroi dell’Urss, l’autrice riesce a raccogliere importanti risultati, come la ricostruzione della vicenda del maresciallo dell’Armata Rossa Achromeev, morto suicida dopo il fallimento del putsch restauratore dell’agosto 1991 (e a rievocarla contribuisce anche la testimonianza di un altissimo funzionario del Cremlino); o quella di uno degli eroi della difesa della Fortezza di Brest nei primissimi giorni dell’attacco tedesco del giugno 1941, il tataro Timerjan Zinatov, stroncato dallo squallore e dalle amnesie dei «tempi nuovi». Ed efficaci sono le rappresentazioni, sempre attraverso la voce di chi le ha vissute, dello sfacelo dell’Urss delle nazionalità, una volta venuto meno il «collante» sovietico: il mattatoio ceceno, azeri contro armeni, tagiki contro russi (ma anche squarci sulla vita infernale del milione di immigrati tagiki che lavorano oggigiorno, privi dei diritti più elementari, nei rutilanti cantieri di Mosca: la nuova mano d’opera schiava della Russia postcomunista). A stagliarsi però dal multiforme coro, ancora più modulate e vibranti delle altre, sono le voci femminili; è il destino delle donne che suscita in Svetlana gli accenti più profondi e consonanti, è con esse che lei può più naturalmente immedesimarsi, più liberamente piangere; la contadina che racconta la vecchiaia desolata propria e del vicino suicida o la insegnante che al di là di un cieco attaccamento al figlio quattordicenne non ha saputo ispirargli amore per la vita sufficiente a farlo vivere; la adolescente per la quale l’amore di mamma e papà e quello più grande che verrà e sarà solo suo coincidono con l’appassionata fedeltà ai leader politici che predicano la Rivoluzione e il Riscatto dell’uomo. E, ancora, l’indigenza e sofferenza estreme in cui crescono con la madre due bimbe, poi donne,- sempre languenti e malate in tane e cantine - dopo una condanna alla deportazione che sembra diventare relegazione perpetua nei bassifondi della società; unica consolazione per la sorella morente, l’immortale poesia russa: «Gelo e sole, giornata mirabile…». E la ricerca da parte di Ol’ga, la voce narrante di questo capitolo, per resistere nella voragine dell’esistenza, di una parola amica, una qualsiasi, di uno sconosciuto: «Ho aspettato tutta la vita che qualcuno mi trovasse». Sul finire della narrazione la sua speranza si avvera: Ol’ga, a un centro di raccolta di reietti come lei è terrorizzata dalla doccia nella quale la disinfettano, rischia di scivolare, teme di fracassarsi sul cemento… Narra: «Un’estranea… un’infermiera… mi afferra al volo e mi stringe a sé: “Uccellino mio, non aver paura”». E conclude: «Ho visto Dio». È un panorama sconsolato, nel prima e nel dopo della storia del suo Paese, quello tracciato da Svetlana Aleksievic, un deserto dei rapporti umani e dei sentimenti, in un popolo che sempre meno si abbevera alla grande cultura e letteratura cui ha dato vita nei secoli, smarrito e avvilito in questo inaudito tempo che non è più il suo, un tempo d’accatto, senza veri ideali. Nel quale oggi, avverte Aleksievic in recenti interventi, la Russia rischia più che mai di abbandonarsi a una inarrestabile deriva di aggressivo nazionalismo dettato dalla frustrazione e dal desiderio di rivalsa. Tutto vero. Eppure… in pochi altri libri si sente con tanta forza il respiro della fraternità: quella «nell’abiezione», certo, di un terribile passato, una fraternità magari negata, che però si invoca continuamente: quella di sorelle e fratelli che nel «silenzio della polvere» si cercano, sagome indistinte l’una per l’altra, e arrivano talvolta a trovarsi, a stringersi e abbracciarsi.