Massimo Franco, Corriere della Sera 26/9/2014, 26 settembre 2014
LO STRAPPO FINALE CONTRO I TENTATIVI DI NASCONDERE
Stavolta è qualcosa di più di un attacco ai «privilegi», come li chiama Francesco. La decisione di fare arrestare in Vaticano un ex nunzio papale polacco e di dimissionare un vescovo del Paraguay è uno strappo: la presa d’atto definitiva che un’epoca è finita.
L’aveva teorizzato in tema di reati sessuali già Benedetto XVI; e adesso lo sta applicando con gesti forti, attenti agli umori dell’opinione pubblica soprattutto occidentale, il papa argentino. Ma è chiaro a tutti che la parola d’ordine della «tolleranza zero» può avere echi diversi. Va letta come un monito inequivocabile all’interno delle file del clero; e come un impegno verso le vittime di abusi sessuali.
In realtà, a essere messa sotto accusa è la «cultura del segreto» che ha dominato per decenni questi scandali; e che tuttora sonnecchia nelle pieghe del mondo cattolico, e non solo cattolico. Per questo, la vicenda delle accuse per pedofilia arrivate da Santo Domingo contro Jozef Wesolowski non sarà probabilmente l’ultima a investire il Vaticano. Anzi, ha tutta l’aria di essere un altro capitolo di uno scandalo infinito, al quale la Roma papale è costretta a reagire eternamente sulla difensiva; e sospettata comunque di avere coperto troppo i suoi uomini in tonaca, e di non avere protetto abbastanza le giovani vittime.
È così almeno dal 2002: da quando a Boston, negli Usa, emerse uno scandalo di proporzioni tali da travolgere l’allora arcivescovo, il potente cardinale Bernard Law. Per capire come siano cambiati i tempi, però, Law si rifugiò in Vaticano, per essere sottratto ai magistrati; e partecipò al Conclave del 2005. Ora, invece, è lo stesso pontefice a fare arrestare un ex ambasciatore papale, e ad «avvicendare» d’imperio il vescovo Ricardo Rivieres Plano per avere coperto gli abusi nella sua diocesi di Ciudad del Este. Dietro la decisione non ci sono solo i rapporti e i richiami severissimi di organizzazioni come le Nazioni Unite sulle responsabilità della Santa Sede in materia di pedofilia.
Dagli anni di Giovanni Paolo II a quelli di Jorge Mario Bergoglio, passando per la fase di Benedetto XVI, sono cambiati il mondo e la percezione degli abusi commessi dai sacerdoti. Fino a quando c’era la Guerra fredda, la pedofilia era un crimine orribile, considerato tuttavia in alcune diocesi al massimo un «grave peccato». D’altronde, nel mondo comunista, per delegittimare alcuni preti li si accusava di pedofilia. E questo, in molti casi, è diventato un alibi per sottovalutare il problema. La Chiesa cattolica era parte del sistema di sicurezza occidentale, e dunque si intuiva un margine di tolleranza colpevole verso certi fenomeni.
Ma alla fine del secolo scorso lo sfondo è cambiato. Il «peccato» ha assunto il suo vero volto: quello di un reato inaccettabile. E il Vaticano ha cominciato a dover fare i conti con un’opinione pubblica che in Occidente non tollerava più certi comportamenti. Il primo a capirlo fu Benedetto XVI: Giovanni Paolo II era troppo immerso nella cultura della guerra fredda e dell’anticomunismo polacco per intuire fino in fondo la gravità del problema. Francesco sta facendo un passo ulteriore, prendendo provvedimenti che vogliono dare il senso di uno spartiacque. E in realtà lo sono, benché vengano accolti oltre Tevere con un misto di soddisfazione e di perplessità.
Intanto, cresce il timore che la pedofilia stia diventando una delle armi con le quali si consumano le lotte interne, non scomparse nell’era di Casa Santa Marta: al di là dei due casi delle ultime ore. Le ombre che qualcuno cerca di allungare sul nuovo «ministro dell’Economia», il cardinale australiano George Pell, ripercorrendo la sua gestione nella diocesi di Sidney, sono un piccolo indizio rivelatore. In più, c’è chi ritiene che sarebbe stato meglio lasciare l’ex nunzio Wesolowski alla magistratura di Santo Domingo, affinché lo processasse lì dove si presume abbia compiuto i suoi reati.
Secondo questa tesi, ci sarebbe stato meno clamore e si sarebbe cancellato qualunque sospetto che il Vaticano voglia comunque proteggere il monsignore, con arresti domiciliari e poi magari una condanna da scontare in qualche istituto religioso. Soprattutto, pesa sulla vicenda il ricordo del processo che fu celebrato in Vaticano quando emerse lo scandalo soprannominato Vatileaks: le migliaia di documenti passati all’esterno dal «maggiordomo» di Benedetto XVI, Paolo Gabriele. Quelle udienze fecero storcere il naso a molti in materia di trasparenza della giustizia della Santa Sede. E rappresentano un’incognita per quanto potrà accadere adesso. Anche perché alla fine la condanna fu mite, e sproporzionata rispetto all’immagine destabilizzante, da attentato alla sicurezza nazionale vaticana, che di quella vicenda era stata trasmessa. Non a caso, dopo il «perdono» di Josef Ratzinger oggi sembra che Gabriele lavori per una cooperativa dell’ospedale Bambin Gesù, presso la basilica di San Paolo. Certamente, le sue colpe dovevano essere molto meno gravi di quelle di un pedofilo. E la decisione coraggiosa presa nei giorni scorsi dal papa è destinata a segnare il rapporto futuro tra vertici della Chiesa ed ecclesiastici che si sono macchiati di crimini odiosi come gli abusi sui minori. Ma, c’è da giurarci, acuirà anche la resistenza sorda di chi, nella Curia e in alcuni episcopati, vede in Francesco non una grande opportunità di rinnovamento, quanto una minaccia allo status quo da arginare il più possibile.