Antonio Massari, il Fatto Quotidiano 26/9/2014, 26 settembre 2014
“WHY NOT”, LA VERA INCHIESTA E L’IPOCRISIA DI POLITICI E GIORNALI
Condanna in primo grado a un anno e tre mesi con sospensione della pena. Il reato: abuso d’ufficio per aver violato la norma – parliamo della legge Boato – che impone al pm, prima di acquisire il tabulato telefonico di un parlamentare, di chiedere l’autorizzazione alla Camera d’appartenenza. La parabola dell’inchiesta Why Not, e dei rivoli giudiziari che ne sono scaturiti, si chiude con gli accusatori – l’ex pm Luigi de Magistris e il suo ex consulente Gioacchino Genchi – nel ruolo di condannati. “Quell’indagine condotta in maniera illegale – dice ora Clemente Mastella – è stata all’origine di tutte le mie difficoltà sul piano politico e umano. Quest’inchiesta ha cambiato, fino a stravolgerla, la storia politica italiana”. Forse è vero, ma in ben altro senso.
Questione di metodo
“Intercettazioni a strascico. Condannato De Magistris”, titola La Stampa, nell’articolo di Guido Ruotolo, che rivendica d’aver “scoperto” nel 2007 il “metodo” Genchi, ovvero la tecnica di partire “da un’utenza d’interesse”, per poi “chiedere i tabulati degli interlocutori di quell’utenza” ottenendo, come risultato, la mappatura di un “elenco sterminato”. Eppure Ruotolo sa – infatti lo scrive – che la condanna non riguarda alcuna intercettazione. E neanche un elenco sterminato, bensì l’acquisizione di 8 utenze, collegate ad altrettanti parlamentari. Giusto per dirne una, l’utenza di Romano Prodi era intestata a tale Delta spa, poi volturata nel 2005 all’associazione l’Ulivo e, nel maggio 2007, alla presidenza del Consiglio: quando, un mese prima, nell’aprile 2007, Genchi e De Magistris chiedono di acquisirne il traffico telefonico – e non di intercettarlo come titola La Stampa – quel numero non reca alcun collegamento ufficiale con il Presidente del Consiglio. Altre utenze recavano sì la dicitura “camera dei deputati”, oppure quella personale, ma, come hanno testimoniato Pisanu e lo stesso Mastella, erano spesso in uso a familiari che non dovrebbero godere delle guarentigie di famiglia. Un fatto è certo: la condanna c’è. Ed è deludente scoprire che, nella sua difesa, De Magistris rivela di aver concesso a Genchi un’autonomia superiore alla prassi.
Nessuna intercettazione a strascico
Altrettanto certo, però, è che il processo non riguarda alcuna intercettazione a strascico. E neanche il “metodo Genchi”, che non è oggetto di alcuna condanna. La vera sorpresa è un’altra: che il Paese, cronisti inclusi, rivelino d’aver scoperto il “metodo” soltanto nel 2007. Eppure Genchi – che Ruotolo e altri colleghi conoscono da anni – lo utilizza sin da quando lavora sulla strage di Capaci, è noto a decine di procure in tutta Italia, è servito a inchiodare e scagionare decine e decine di imputati. E se è vero – come è vero – che “l’archivio Genchi” è stata una mole immensa di dati, è altrettanto vero che gli è stato consentito dalla legge e dai pm: non è frutto di una illegale attività di spionaggio. Ma lo scandalo si manifesta soltanto durante l’inchiesta Why Not: perché non prima? Gridare allo scandalo soltanto in quel frangente appare – insomma – un tantino ipocrita. L’inchiesta riguarda – scrive Filippo Facci su Libero – anche la “famigerata loggia di San Marino” che “non era mai esistita”. Ma la “famigerata” loggia non è un’invenzione di Genchi e De Magistris: a scriverne, è il principale indagato (poi condannato) di Why Not, Antonio Saladino, in una mail spedita a Enza Bruno Bossio, moglie dell’ex segretario regionale dei Ds in Calabria, Nicola Adamo: “Quando ci vediamo per la loggia di San Marino?”.
“Questa è storia”
“L’inchiesta Why Not e la compravendita dei senatori – dice Francesco Rutelli a Francesco Bonazzi di Dagospia – sono stati all’origine di 5 anni di Berlusconi. Questa è storia”. E sulla caduta del Governo Prodi aggiunge: “Mastella era l’anello debole... La vicenda calabrese è una parte, ma quella decisiva è l’inchiesta della procura di Santa Maria Capua Vetere su tutto l’Udeur...”.
A dirla tutta, dopo l’iscrizione di Prodi (poi archiviato) nel registro degli indagati, quando De Magistris e Genchi investigano su massoneria e truffe ai fondi europei, l’ex ministro di Giustizia, ovvero “l’anello debole” Mastella, ha abbastanza forza per inviare gli ispettori nella procura di Catanzaro. E Rutelli dimentica un dettaglio: Mastella conosce bene il principale indagato di Why Not, Antonio Saladino, col quale intrattiene diverse conversazioni telefoniche, già pubblicate dai giornali e finite nel fascicolo. Conosce bene anche un altro indagato, poi archiviato, ovvero l’ex piduista (poi condannato nello scandalo P4) Luigi Bisignani. Quando poi De Magistris iscrive Mastella nel registro degli indagati (anch’egli archiviato) gli viene avocata l’inchiesta: non può indagare sul ministro che gli ha piazzato sul collo gli ispettori. Invece il ministro – nella pace generale – può “ispezionare” il pm che – immaginate il corto circuito – ha in mano le sue intercettazioni.
Il governo Prodi–Mastella supera di gran lunga le scorrerie berlusconiane in campo giudiziario eppure non fiata nessuno. Né i giornalisti, tranne qualche rara eccezione, né l’Anm. E come dice Rutelli: “Questa è storia”. Avocata Why Not a De Magistris, Mastella si dimette, sì, ma perché lamenta di non essere sufficientemente protetto, dai colleghi di Governo, che non fiatano quando arriva ben altra indagine: quella di Santa Maria Capua Vetere sull’Udeur.
L’indagine incompleta e lo scontro tra procure
Infine, è vero che la maggior parte delle accuse sono approdate ad altrettante assoluzioni, ma è altrettanto vero che De Magistris non ha potuto concludere il suo lavoro, visto che gli è stato avocato e viene trasferito. E ancora: dalle denunce di De Magistris, dopo l’avocazione, nasce l’indagine della procura di Salerno su quella di Catanzaro. I salernitani chiedono ai colleghi calabresi documenti che Catanzaro non vuole concedere: la procura di Salerno decide di acquisire gli atti e i giornali titolano: “Scontro tra procure”. Definizione utile ad accomunare gli inquirenti – pm Gabriella Nuzzi, Dionigio Verasani e il loro capo Luigi Apicella – con gli inquisiti, che non hanno diritto di negare gli atti. Risultato: interviene Napolitano, il Csm, e i pm salernitani vengono trasferiti. E non solo loro. L’inviato del Corriere della Sera Carlo Vulpio rivela che, negli atti della procura di Salerno, sebbene non indagato, compare il nome di Nicola Mancino. Il premio per lo scoop? Arriva in poche ore: non si occupa più dell’inchiesta e, ancora oggi, sul quotidiano di via Solferino, lo troverete a dilettarsi di cultura.
Antonio Massari, il Fatto Quotidiano 26/9/2014