Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 26 Venerdì calendario

TRATTATIVA, NAPOLITANO SARÀ ASCOLTATO

Il presidente non ha nulla in contrario: la Corte d’assise di Palermo conferma che Giorgio Napolitano dovrà deporre al processo sulla trattativa Stato-mafia e lui accetta apparentemente di buon grado. A patto però che lo sentano solo sul limitatissimo tema ammesso dai giudici. Nel giorno in cui saluta il vecchio Csm e insedia il nuovo, ribadendo che la riforma della giustizia, tanto invisa ai magistrati, è improcrastinabile, è anzi «un nodo essenziale da sciogliere per ridare competitività all’economia», il Capo dello Stato incassa la decisione dei giudici siciliani, che non intendono affatto stralciarlo dalla lista dei testimoni, così come avevano chiesto, al processo di Palermo, gli avvocati Giuseppe Di Peri e Pietro Federico, legali di Marcello Dell’Utri, e l’avvocatura dello Stato.
Perché, anche se il presidente ha fatto sapere, con una lettera indirizzata alla Corte, che non ha molto da dire, sui temi proposti dalla Procura di Palermo (le eventuali confidenze a lui fatte dal suo consigliere giuridico, Loris D’Ambrosio, morto nel luglio 2012), il collegio presieduto da Alfredo Montalto ritiene in sostanza che non possa essere lo stesso testimone a valutare e decidere se rendere o meno la deposizione. Perché anche un’eventuale non conoscenza di determinati fatti, da parte del teste eccellente, potrebbe avere importanza.
Napolitano non apre nuovi fronti di scontro e di polemica: «Prendo atto dell’ordinanza e non ho alcuna difficoltà a rendere al più presto testimonianza, secondo modalità da definire, sul capitolato di prova ammesso». Non ci sarà dunque un altro conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, del tipo di quello che, nel 2012, aveva visto il presidente della Repubblica contro la Procura di Palermo, che intendeva distruggere – ma dopo averle depositate, rendendole cioè pubbliche – quattro conversazioni fra l’inquilino del Quirinale e l’ex ministro Nicola Mancino, uno degli imputati del processo (risponde di falsa testimonianza). Napolitano, molto colpito dalla morte di D’Ambrosio, finito nel tritacarne mediatico-giudiziario per via delle conversazioni, anch’esse intercettate, con lo stesso Mancino, si era rivolto alla Corte costituzionale e aveva ottenuto l’ordine di distruzione, fatto eseguire dal Gip di Palermo, senza alcun deposito e senza pubblicità.
Ora il presidente non farà ricorso allo stesso sistema, ma parlerà solo delle presunte confidenze di cui, in una lettera fatta pubblicare dallo stesso Napolitano, parlava D’Ambrosio, quando faceva riferimento al possibile inganno di cui lo stesso consigliere del Colle sarebbe stato vittima, tra il 1989 e il 1993, nel momento in cui qualcuno lo avrebbe usato come «utile scriba» per «indicibili accordi»; gli avrebbe cioè fatto scrivere un decreto di nomina presumibilmente illegittimo di Francesco Di Maggio come vice del Dap, il dipartimento penitenziario. E Di Maggio, morto nel 1996, è considerato dai pm un personaggio-chiave della trattativa con i boss.
Un altro aspetto non secondario è quello logistico: l’udienza, che si terrà obbligatoriamente al Quirinale (Napolitano non potrebbe decidere, nemmeno volendo, di spostarsi lui) non vedrà l’imbarazzante presenza, sia pure per mezzo di un collegamento in videoconferenza, di Totò Riina, Leoluca Bagarella e degli altri imputati mafiosi, né la presenza fisica al Colle di Mancino, Massimo Ciancimino, Marcello Dell’Utri, detenuto per scontare una condanna per mafia. Non ci saranno nemmeno le persone costituite parte civile (tra cui Salvatore Borsellino, fratello di Paolo) ma solo i pm e gli avvocati, così come prevede il codice di procedura penale, che equipara l’udienza a quella che si tiene nel domicilio delle persone impossibilitate – quasi sempre per motivi di salute – a raggiungere l’aula di giustizia.
Riccardo Arena, La Stampa 26/9/2014