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 2014  settembre 26 Venerdì calendario

LE DOMANDE DEI MAGISTRATI

Per scoprire davvero qualcosa ci sarebbe voluto come testimone un altro presidente della Repubblica. Ma siccome non c’è più, quella di Napolitano sarà la prima e più eccellente deposizione in un’udienza dove lo Stato processa se stesso.
Cos’è, se non questo, il grande affaire della trattativa? Clamorosa la rappresentazione che si annuncia, con una corte di Assise che si sposta solennemente da Palermo al Quirinale per ascoltare a porte chiuse il Presidente.
Ineccepibile in punto di diritto la decisione dei giudici di avere Napolitano sul banco dei testimoni. Forse troppo carica di aspettative quest’audizione voluta fortemente dai pubblici ministeri e che alla stessa Corte «appare né superflua né irrilevante». Trattativa Stato-mafia e non trattativa mafia-Stato, la differenza c’è e non è poca: il patto non l’hanno cercato i boss, l’avrebbero voluto gli altri.
Il Presidente ha già fatto sapere che non ha nulla da dire su un episodio che è legato all’intricata vicenda dell’accordo fra i Corleonesi e quei pezzi delle Istituzioni che inseguirono una tregua fra il 1992 e il 1993, ma il pool antimafia siciliano è sempre stato di avviso contrario, la Corte gli ha dato ragione. Vedremo come andrà a finire quest’udienza, cosa chiederanno a Napolitano e cosa lui riferirà, quali elementi in più porterà il capo dello Stato in un dibattimento che da una parte è ancorato ai suoi regolari tempi processuali e dall’altro è segnato da nuove indagini che hanno scatenato polemiche sul Palazzo di Giustizia di Palermo.
Non si ancora quando ma l’attesissimo incontro a Roma ormai è imminente, Napolitano dovrà rispondere alle domande dei pubblici ministeri e degli avvocati ma, fra loro, non ci sarà nessun altro nella stanzetta del Quirinale adibita ad aula di giustizia. Nessun altro imputato. Né in carne ed ossa come il figlio dell’ex sindaco Vito Ciancimino o come i generali dei carabinieri Antonino Subranni e Mario Mori, né in video come quel Totò Riina che per una volta non avrà a diritto a palesarsi su uno schermo per presenziare al suo processo preferito. Dopo le infuocate polemiche dell’estate del 2012 sulle telefonate dell’ex ministro dell’Interno Nicola Mancino — imputato nel dibattimento per falsa testimonianza — a Giorgio Napolitano, dopo l’improvvisa morte del consigliere giuridico del Quirinale Loris D’Ambrosio (sul quale Mancino premeva per far avocare l’inchiesta), dopo la sentenza della Corte Costituzionale che ordinava di «distruggere» le telefonate con la voce del presidente, Napolitano dovrà ricordare un passaggio chiave della trattativa-story. Quello della lettera ricevuta dal suo consigliere giuridico — uno scritto reso pubblico dallo stesso Napolitano due anni fa — dove manifestava il timore «di essere stato considerato solo un ingenuo e utile scriba di cose utili a fungere da scudo per indicibili accordi, e ciò nel periodo fra il 1989 e il 1993». Il periodo è quello che va dall’attentato all’Addaura contro Giovanni Falcone alle bombe di Firenze, Roma e Milano passando per Capaci e via D’Amelio. Sono in pratica gli anni della strategia della tensione sul fianco sud dell’Italia, i sabotaggi investigativi e le bombe, i depistaggi e le misteriose catture come quella di Riina che è servita a «pacificare» in qualche modo Cosa Nostra. A cosa alludeva il consigliere D’Ambrosio, prima in servizio in quel carrozzone inutile e dannoso che era l’Alto Commissariato Antimafia e poi al ministero di Grazia e giustizia al fianco di Falcone, con quella frase sugli «indicibili accordi»? È quello che il Presidente si sentirà chiedere dai pubblici ministeri palermitani: è a conoscenza di qualcosa d’altro su quella lettera, il consigliere D’Ambrosio gliene ha mai parlato, ha mai ricevuto confidenze prima e dopo quello sfogo epistolare?
Seppure Napolitano abbia già comunicato il suo pensiero con una lettera inviata alla Corte di Assise il 31 ottobre del 2013, i giudici sostengono che «anche se si volesse prendere atto del diniego di conoscenze già espresso dal teste.. non potrebbe di per sé solo ritenersi che sia venuto meno l’interesse della parte richiedente ad assumere la testimonianza ». E così testimonianza sarà.
All’inizio abbiamo scritto che un altro Presidente sarebbe stato forse più utile al processo: Oscar Luigi Scalfaro. Citato nell’indagine palermitana, è in qualche modo anche lui chiamato in causa — insieme all’ex capo della polizia Vincenzo Parisi — dopo una rivolta mafiosa contro il carcere duro. È un altro pezzo dell’inchiesta, uno dei tanti. Questo sulla trattativa sta diventando un maxi processo dove entrano sempre nuovi personaggi avvinghiati da antiche intese.
Attilio Bolzoni, la Repubblica 26/9/2014