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 2014  settembre 20 Sabato calendario

LA DONNA CHE SUSSURRAVA IL NOSTRO CINEMA AI SOVIETICI


«A distanza di anni penso che l’Unione Sovietica fosse una canzone che parlava soltanto di guerra e lavoro. Ma noi avevamo bisogno di un abbraccio, di qualcuno che raccontasse la nostra vita e i sentimenti che erano la nostra unica proprietà privata». Raissa mescola lentamente il tè dopo avervi versato lo sciroppo allo zucchero. Avvicina alla bocca la tazza, poi si ferma e ride. I suoi denti sono incorniciati da labbra color ciliegia. «Lo bevo più tardi, altrimenti il trucco si rovina, e per voi devo essere bella. Agli italiani piacciono le cose belle, no?». Ride ancora, una ragazzina di 67 anni che ha girato il mondo che una volta si chiamava Unione Sovietica i cui confini erano tanto grandi quanto inviolabili. Raissa parla della sua Kiev come del suo castello e della sua vita come di quella di una diva. Perché, in realtà, lo è stata, una diva. Ma lontana dai riflettori. Anzi, lo è stata proprio a luci spente quando la sala era silenziosa e iniziavano a scivolare sullo schermo i titoli di testa.
Negli anni Ottanta gli intellettuali e i politici prima, e poi il grande pubblico sovietico hanno conosciuto il cinema italiano grazie a lei. Raissa traduceva le pellicole dei maestri del neorealismo e faceva commuovere la platea raccontando, con passione, le avventure dei protagonisti scaldati dal sole del Mediterraneo, gli amori romani e le fatiche dei contadini meridionali.
Erano gli anni di Michail Gorbaciov, ultimo segretario generale del Partito Comunista; anni in cui a poco a poco i Paesi dell’Unione chiedevano la loro indipendenza, ottenuta solo dopo il 1991. Anni anche di tragedie: il 26 aprile del 1986 in Ucraina il disastro della centrale nucleare di Cernobyl che ha causato 65 morti accertati e decine di migliaia nell’arco di oltre mezzo secolo. Proprio una catastrofe di questo tipo ha messo in moto meccanismi leggeri e sottili che hanno portato le pellicole italiane a sfondare la cortina di ferro sovietica.
L’ambasciata italiana a Mosca, dopo il disastro nucleare, aveva deciso di inviare alla popolazione sovietica le pellicole di alcuni film, soprattutto del Neorealismo, quelli di Valerio Soldati, Pietro Germi, le retrospettive di Luchino Visconti, Federico Fellini, Michelangelo Antonioni, con Sofia Loren, Claudia Cardinale. Era un gesto per aiutare la gente a svagarsi e a ritagliarsi qualche ora di libertà dal lavoro e dalla sofferenza. Così, decine e decine di “pizze” vennero mandate nelle principali città dell’Impero russo. Anche a Kiev. «Lessi un annuncio: cercavano una traduttrice per le sale cinematografiche», racconta Raissa. I film arrivavano in italiano ed era necessario doppiare tutti i dialoghi. Raissa si presentò, recitò qualche battuta e subito venne iscritta all’Associazione cineasti dell’Unione Sovietica. «Una posizione davvero prestigiosa perché faceva capo direttamente a Mosca ed era un lavoro davvero ben pagato».
La giovane Raissa viveva in Lituania, dove era nata da genitori ebrei. Durante l’università di Lingue e letteratura russa a Vilnius andava spesso a ballare nei locali dove si ascoltavano i grandi successi italiani di quell’epoca: Celentano, Robertino. Massimo Ranieri, Little Tony, Teddy Reno. Ma la canzone Una lacrima sul viso di Bobby Solo lasciò il segno: «Andai immediatamente a comprare un dizionario italiano e una grammatica. Dovevo capire di cosa parlavano le canzoni. E così, in pochi mesi, imparai l’italiano». Ogni giorno dalle 3 alle 4 del pomeriggio si ascoltava Radio Praga per l’Italia, un programma fatto per gli italiani emigrati in Lituania. «Imparavo tanto ascoltando i messaggi che le famiglie lasciavano per i loro cari all’estero». Dalla musica al cinema. Luchino Visconti, poi Mastroianni, Scola. Un amore consumato a distanza, sempre dentro i confini dell’Unione, senza mai vedere i luoghi descritti dagli artisti italiani. «Sono stata in Italia solo nel ‘91, a Venezia e Milano. E sul lago di Como ho riconosciuto tutti i luoghi del film Mussolini ultimo atto di Carlo Lizzani, quella pellicola meravigliosa con Franco Nero e Rod Steiger, che avevo tradotto anni prima. Ricordavo il bar, la pizza, era come esserci già stata tante volte».
Suona il telefono e Raissa si distrae. Si alza, fa due passi verso piazza Maidan alle spalle del bar italiano dove ha scelto di raccontare la sua storia, guarda la pavimentazione distrutta dagli scontri di febbraio, i cubetti di porfido che la ricoprivano sono ammucchiati ai lati della strada: servivano come arma e poi come barricate. «Una piazza cancellata, ma anche questa è storia. Maidan è il nostro film contemporaneo», dice come pensando ad alta voce. Si risiede, ritrova il filo del discorso cercando tra le pellicole, gli attori, i luoghi intrecciati nella sua mente. E sceglie di partire dall’inizio. Da quel provino superato a pieni voti e dai viaggi. «A quel tempo le anteprime le vedevano gli intellettuali e i segretari dell’Unione Sovietica. I primi, qui a Kiev, si ritrovavano nella Casa del Cinema, un teatro, gli altri avevano una casa privata, meravigliosa per quegli anni, con una stanza costruita apposta per le proiezioni». Così Raissa, spinta dal collega e mentore Sergei, l’interprete ufficiale di Gorbaciov, inizia a lavorare per l’Unione Sovietica.
Raissa arrivava presto al mattino e guardava da sola il film. Studiava la vita del regista, la trama, le curiosità sulle riprese, il background culturale da cui veniva la pellicola. Poi, al momento della visione, abbassava il volume e al microfono recitava in russo i dialoghi, che ormai sapeva a memoria. «Il mio lavoro non era solo tradurre, ma interpretare le emozioni degli attori», spiega, «esprimere il pathos, la gioia, la tristezza così da far immergere gli spettatori interamente nella storia. E loro piangevano e ridevano e si scordavano di me».
A Leningrado ha tradotto la Casa del tappeto giallo del 1983 di Carlo Lizzani, un thriller. «Era molto difficile», spiega Raissa, «ci sono pochi attori e tutto è ambientato in una stanza. La casa era arredata con un design nuovo per noi, abituati a pochi e semplici oggetti, e gli spettatori pensavano che il film provenisse da un mondo lontano e sconosciuto».
In Kazakistan, invece, Raissa ci è stata diverse volte. Si viaggiava in aereo e le spese erano tutte pagate. Era seguita da enormi casse contenenti le pellicole, le proiezioni per gli Eroi dell’Unione Sovietica, coloro che si erano distinti in qualche campo. La casa dell’Eroe dell’industria ad Astana, in Kazakistan era di quattro piani e nel centro del cortile c’era una enorme statua grigia che raffigurava il proprietario. «Dopo che una persona era nominata per tre volte Eroe dell’Unione aveva diritto a una statua di se stesso». Era un uomo anziano, sordo da un orecchio. Così Raissa doveva sussurrare tutte le traduzioni direttamente nell’orecchio buono, spesso ripetendo più volte i dialoghi.
«Sono stata in Georgia, in Armenia, a casa di tutti i primi segretari del Partito Comunista e portavamo una tragedia, una commedia, un film comico e uno di taglio più filosofico». Le tematiche più delicate erano però evitate: Mosca non voleva che i suoi uomini guardassero film «che parlassero per esempio di omosessualità, come l’ultimo film di Visconti, Ludwig, del ’73. Lo abbiamo proiettato solo alla Casa del Cinema di Kiev davanti a intellettuali e registi. Era troppo delicato per mostrarlo ai politici».
La casa di Raissa si affaccia sulla piazza principale di Kiev e durante le notti dei massacri di febbraio lei scendeva e portava coperte e cibo per i feriti. Il cinema ha insegnato a vivere e scoprire il mondo. Ha insegnato come affrontare i cambiamenti di un paese in bilico e di cui ancora non si conosce il finale. Tre matrimoni, due molto brevi, l’ultimo che dura da oltre 30 anni con un uomo di origini finlandesi, ma Raissa viaggia sola e leggera. «Lilo sempre fatto. Il cinema italiano era il mondo privato. Quella proprietà che ci è stata tolta per tanto tempo». Parla de La pelle, di Liliana Cavani, il film dell’81 tratto dal romanzo omonimo di Curzio Malaparte, con Marcello Mastroianni e Claudia Cardinale e le mani si agitano descrivendo le scene, poi si chiudono e i pugni si stringono. Raissa l’attrice: «L’italiano è musica, parlate ancora con me? Vi voglio ascoltare ballando».