Sandra Amurri, il Fatto Quotidiano 25/9/2014, 25 settembre 2014
LA TRINCEA DI ELENA “A CASTELVETRANO MI CHIAMANO INFAME”
Castelvetrano
Siamo a Castelvetrano, città di Matteo Messina Denaro, capo di Cosa Nostra latitante da 21 anni. Qui, nel quartiere Badia, dove vivono la madre, la compagna e la figlia del sanguinario boss, dove anche le pietre, se potessero parlare, avrebbero da raccontare ciò che gli occhi vedono e le bocche tacciono, una giovane imprenditrice ha squarciato il velo del silenzio denunciando il suo estorsore, Mario Messina Denaro, cugino del “capo”. Elena Ferraro, 37 anni, laureata in Filosofia, presidente e Ad del Centro diagnostico Hermes, è diventata esempio di coraggio civile, riferimento di resistenza culturale e umana. “Non sono un’imprenditrice antimafia”, precisa mentre entriamo nel suo ufficio. “Sono una donna normale che ha compiuto una scelta obbligata di legalità”.
Elena vive da sola. Non è una donna senza paura. È una donna che la paura sa tenerla a bada.
Era il 12 aprile del 2012. La porta del suo ufficio era aperta come sempre. Entra un uomo. L’aspetto poco rassicurante. Si chiude la porta alle spalle e le dice: “Buongiorno, sono Messina Denaro, lei è la responsabile, vero?”. “Sì”, risponde Elena. Mario è il cugino di “iddu”, come i suoi sodali chiamano Matteo alzando lo sguardo al cielo. “So che lei vive a Montevago (epicentro del terremoto del Belice, ndr) dove ho cari amici”, segue l’elenco di tre mafiosi di rango “Ho un affare da proporle. So che questa struttura non eroga il servizio di ortopedia, lo porto io l’ortopedico, è il dottor Plazzi. Lei deve stipulare con la clinica Igea di Partinico una convenzione, sovrafatturare le prestazioni, poi veniamo noi, ogni sei mesi a ritirare la nostra parte che ci serve per mantenere le famiglie dei carcerati e pagare gli avvocati”. Il sangue le si gela nelle vene. Ma non la voce. “Noi abbiamo sempre agito nella legalità, questo è un illecito”. “Come fare è un problema suo”, ribatte il mafioso. Elena per ribadire la sua posizione gli racconta di quando il boss di Salemi Michele Gucciardi andò da lei a chiederle di riassumere un tecnico che aveva licenziato per un ammanco e lei non retrocesse di un passo. “E cosa c’entra? A noi servono i soldi, ’sta cosa l’ama a fare, ci pensi, tornerò”. Si alza e se ne va.
Elena resta sola con quelle parole che le rimbombano nella testa per tre giorni e tre notti fino a quando varca la soglia della Squadra mobile di Trapani e riempie il suo verbale. Mario Messina Denaro ritorna con la scusa di prenotare degli esami, la invita a bere un caffè alle 8,30 al bar Mozart, che si trova davanti al suo caseificio. Elena, che conosce la simbologia mafiosa, accetta ma arriva prima, paga il suo caffè, si siede e lo aspetta. Lui, quando vede la tazzina sporca sul tavolino comprende la sfida di quel gesto e prima di riprendere il discorso sbotta: “Ma come, glielo dovevo offrire io il caffè!”. Elena ribadisce il suo no mentre gli agenti comandati dal dottor Giovanni Leuci filmano e registrano anche gli incontri che seguono in cui il mafioso le presenta l’ortopedico Plazzi. Finché il 13 dicembre 2013, Mario Messina Denaro viene arrestato nell’ambito dell’operazione Eden assieme ad altri 30 mafiosi fra cui la sorella del latitante, Patrizia e il suo nipote preferito, Francesco Guttadauro.
Al mattino Elena va a fare colazione nel bar che dista pochi metri dal Centro diagnostico, gestito dal fratello di Lorenzo Catalanotto, un fedelissimo che veicolava i pizzini per Matteo Messina Denaro, arrestato nel 2010. Sul tavolino un quotidiano in cui campeggia la sua foto. “Appena mi vedono lo richiudono. Cala un silenzio di tomba. Bevo il caffè, faccio per pagare, e sento: ‘Ah, Elena oggi il caffè è pagato per tutti’. Ringrazio sforzandomi di sorridere. Esco, le gambe mi tremavano. Davanti ai miei occhi rivedo la scena del film I Cento Passi quando Badala-menti va alla pizzeria di Peppino Impastato e gli dice: “Io ti do la possibilità di continuare a ragliare alla radio e io decido quando ti stacco la spina”.
Il mafioso chiede il rito abbreviato, viene condannato a 4 anni e mezzo. Il tempo lentamente riprende il suo ritmo, fino a mercoledì 17 settembre quando al mattino i tecnici della Hermes scoprono che sono stati tranciati i fili della Tac. Nessun segno di manomissione alle porte d’accesso. Forse una intimidazione per dimostrare che il trasferimento, appena ottenuto, della convenzione con il sistema sanitario, dal Centro Diagnostico di Salemi alla Hermes di Castelvetrano, rimasta bloccata per 6 anni, non è cosa gradita alla mafia. Seguono attestati di solidarietà. Il sindaco del Comune di Castelvetrano, Felice Errante (Ncd) che per una “dimenticanza” (sic!) non si è costituito parte civile al processo, le offre un assessorato nel rimpasto di giunta, la invitano ai talk show, lei rifiuta. Il ministro Alfano, che oggi sarà a Castelvetrano per una manifestazione pubblica la vuole al suo fianco, lei non andrà. Elena non vuole diventare la faccia dignitosa di una politica che la criminalità mafiosa la combatte a colpi di proclami e non di leggi. “Non è facile ma si può fare. La mafia fa di te ciò che vuole, ti fa vivere o morire. A me ha voluto dire: ‘Posso farti diventare la regina della sanità privata’, così come ha trasformato Gricoli da gestore di un alimentari a re della grande distribuzione . Ti lima ai fianchi. Ti umilia. Ieri mentre entravo in un negozio hanno detto: ‘Tal’è cu c’e, l’infame’”. Una realtà che le parole riproducono solo in parte. Come quella volta che Patrizia Messina Denaro fu portata al Pronto soccorso per un malore. Di turno la dottoressa Brusca. La sorella del capo sente quel cognome e sbotta: “Una Brusca puru si è dutturi un po mettiri li manu ’ncapu a Messina Denaro”. La dottoressa scompare, sostituita da un collega. Siamo in terra di mafia dove la difesa delle più elementari regole democratiche è un atto estremo. Dove c’è anche Elena Ferraro che dice: “Preferirei di no”. Una donna che onora il “suo” Sud con la densità di gesti controvento.
Sandra Amurri, il Fatto Quotidiano 25/9/2014