Sergio Romano, Corriere della Sera 25/9/2014, 25 settembre 2014
AFFARI CON PAESI CORROTTI RISCHI E TRABOCCHETTI [2
lettere] –
Caro Romano, nonostante la sua risposta sulla corruzione, a me è rimasto il dubbio se lei è favorevole o contrario. Vuole dircelo?
Carla Lorenzi Castellanza (Va)
Cara Signora,
I giornalisti non sono né arbitri né giudici, e vi sono questioni imbrogliate in cui è lecito avere molti dubbi. Posso facilmente immaginare un dibattito in cui i partigiani della Convenzione promossa dall’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) contro la corruzione internazionale, sosterebbero che i corrotti, in queste vicende, sono raramente da una parte sola. Se l’azienda occidentale è disposta a pagare una somma in nero, vi saranno mediatori, talora all’interno dell’azienda, a cui occorrerà pagare quella che viene chiamata eufemisticamente una «provvigione»; e vi saranno testimoni dell’operazione che converrà tacitare. A giudicare da quanto è apparso sui giornali questo sarebbe per l’appunto il sospetto degli inquirenti nell’indagine sull’Eni. Non basta: l’azienda che paga in nero il suo interlocutore indigeno non si limita a violare le regole fiscali del Paese a cui appartiene; compete scorrettamente con concorrenti che rispettano la legge e aggira in tal modo le buone regole del libero mercato.
D’accordo, risponderebbe l’avvocato dell’altra parte. Ma siamo davvero certi che tutti giochino la partita con le stesse carte? Sarebbe giusto punire l’imprenditore italiano se deve battersi con aziende che stanno conquistando un mercato offrendo denaro ai loro interlocutori? Mentre un altro avvocato aggiungerebbe: siamo certi che tutti i sistemi giudiziari dei Paesi firmatari della Convenzione abbiano gli stessi criteri di giudizio? Saranno altrettanto severi o chiuderanno un occhio per difendere l’interesse nazionale?
Dopo essermi arrovellato con tutti questi dubbi, cara Signora, mi consolo pensando che la Convenzione dell’Ocse vada nella giusta direzione, ma sia soltanto la tappa di un processo destinato a diventare meno lacunoso sulla base delle esperienze che avremo fatto lungo la strada.
CORRUZIONE INTERNAZIONALE UNA ASIMMETRIA GIURIDICA [Lettera del 15 settembre] –
Vengo a conoscenza dell’ennesimo caso di indagine da parte delle procure nei confronti di amministratori aziendali per l’ipotesi di «corruzione internazionale». Ritengo
che nel mondo certe
pratiche siano purtroppo quasi necessarie per la riuscita di certi affari; gli italiani si comportano come tutti gli altri — americani, francesi, cinesi o tedeschi che siano — per portare a casa il risultato ed è un idealista chi volesse affermare che in realtà nel mondo la concorrenza si basa su principi di lealtà. Per quanto riguarda l’ambito interno, sono assolutamente d’accordo nel sostenere l’idea secondo cui tra ditte italiane che danno lavoro ad italiani ci debba essere una competizione leale e legale: qualora una si avvalesse della corruzione per spuntarla sulle altre, dovrebbe essere severamente condannata. Nell’ambito internazionale, però, visto come funzionano le cose, non si potrebbe chiudere un occhio e lasciare che le nostre aziende, facendo i loro interessi, riportino un successo anche per la nostra comunità nazionale?
Luca Polles
luca.polles@virgilio.it
Leggo che i vertici dell’Eni sono stati indagati per fatti corruttivi in Nigeria. Senza entrare nel merito, preciso che ho lavorato per diversi anni in quel Paese dove, se le aziende non pagano (americani compresi), non fanno affari né grandi né piccoli. Tutti i governi ne sono a conoscenza, tanto che alcuni di essi, addirittura, riconoscono gli extracosti in detrazione dei redditi. Perché soltanto in Italia ci comportiamo da ipocrite anime belle?
Fausto Floreani
Majano (Ud)
Cari lettori,
«chiudere un occhio» non è ciò che le società democratiche dovrebbero chiedere ai loro governi e non è sempre, comunque, una pratica efficace. Gli scandali scoppiano, prima o dopo, e costringono i governi ad assumere una pubblica posizione. Alcuni Paesi, fra cui la Germania, avevano constatato l’esistenza di un problema e avevano giudicato opportuno approvare una legge che consentiva d’iscrivere in bilancio le somme spese per «oliare le ruote» di un Paese in cui gli affari si fanno soltanto comprando la buona volontà di uomini politici e alti burocrati. Ma anche la Germania dovette fare un passo indietro quando l’Organizzazione per la Cooperazione economica e lo Sviluppo patrocinò alla fine degli anni Novanta una convenzione sulla corruzione nei rapporti d’affari internazionali. Qualche Paese espresse dubbi e perplessità, ma la convenzione venne presentata alla pubblica opinione come lo strumento che avrebbe dato un decisivo contributo alla moralità dei mercati in epoca di crescente globalizzazione, un esempio di civiltà che l’Occidente aveva il dovere di dare al mondo. Per il timore di essere esposti a una sorta di linciaggio morale, gli scettici si lasciarono convincere e la convenzione risulta essere stata ratificata da 41 Paesi. L’Italia ha depositato la sua ratifica il 15 dicembre 2000 e l’ha resa operante nel febbraio 2001.
Temo che gli scettici non avessero torto. È stato dimenticato che esistono ancora nel mondo numerosi Stati patrimoniali, ovvero Stati in cui i ceti che amministrano e governano si considerano proprietari delle risorse nazionali e le trattano come beni personali. Si è creata così una asimmetria giuridica. Quali che siano gli strumenti previsti dalla legge, non sarà mai facile punire i politici e i burocrati stranieri, ma sarà più facile, grazie alla Convenzione, punire gli imprenditori italiani.