Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2014  settembre 24 Mercoledì calendario

PASOLINI, IL VANGELO CORSARI

Come nacque, nel 1964, Il Vangelo se­condo Matteo? Cosa spinse Pier Paolo Pasolini, un marxista non credente, a realizzare un film sulla vita di Gesù co­sì aderente al sacro testo, essenziale, privo di ideologismi? Il regista era af­fascinato dal Cristo-uomo apologeta degli ultimi e rimase rapito dalla bellezza della Pa­rola: ma poteva bastare, questo, a fare «il miglior film su Gesù di tutta la storia del cinema», come ha so­stenuto, di recente, il giornale della Santa Sede?
Sulla genesi del capolavoro cinematografico è stato detto, e scritto, quasi tutto. Ma ci sono ancora pagi­ne rimaste sommerse, forse le più intime e personali dell’autore: «Cristo mi chiama ma senza luce», un convegno di studi promosso ad Assisi dagli Amici dell’Osservatorio della Pro Civitate Christiana, il 26 e 27 settembre, a cinquant’anni dall’uscita del film, proverà a farle riaffiorare con uno sguardo ampio e nelle pieghe del «già saputo». Fu veramente uno sconvolgimento interiore del poeta a generare il film? Pasolini maturò la decisione di raccontare la storia del Nazareno dopo aver riletto il Vangelo «come un romanzo», in una notte «illuminata», ospite della Cittadella per un dibattito sul suo Accattone: lo con­fida a Lucio Settimio Caruso, un medico missiona­rio
della Pro Civitate, con una lettera il cui conte­nuto rappresenta una specie di «manifesto pro­grammatico » del Vangelo secondo Matteo, un film preparato accuratamente, con sopralluoghi in Ter­rasanta, e girato (a Matera, Crotone, Massafra e sul­l’Etna) con l’aiuto coraggioso dell’associazione di Assisi, di due gesuiti del Centro San Fedele e del teologo e poeta Romano Guardini (secondo il qua­le, però, mai Gesù avrebbe potuto essere interpre­tato da un attore). La rilettura del Vangelo, libro che qualcuno aveva messo sul comodino della sua camera nella foreste­ria della Pro Civitate, per l’autore degli Scritti corsa­ri fu – come lui stesso ricordava – «una furiosa on­data, un trauma, un impulso che in quel momento lì era assolutamente oscuro, una forma di esaltazio­ne, era quella che Bernard Berenson chiama ’l’au­mento di vitalità’ che dà la lettura di un grande te­sto, la visione di un grande quadro». Per un creden­te questo è il «sussulto dell’anima» che provoca il Mistero quando irrompe nella realtà. Fu così anche per Pasolini? E come spiegare la commovente dedi­ca nei titoli di testa «Alla cara, lieta, familiare me­moria di Giovanni XXIII» e il desiderio dell’autore di proiettare il film «nel giorno di Pasqua in tutti i ci­nema parrocchiali d’Italia e del mondo»?
Pasolini era un artista complesso e controverso, scan­dalizzava il mondo con il suo cinema e la lettera­tura, si trovava spesso in contrasto con il pen­siero della Chiesa. Eppure sentiva vivo, den­tro di sè, il senso religioso. Il film fu davve­ro solo l’esito di un «sentimento irrazio­nale » che aveva preso del cristianesimo solo le forme di una lotta per il riscatto dei poveri? «Non è certo un caso che il Vangelo di Pasolini divenne un film di riferimento in America Latina per il movimento della Teologia della Li­berazione – dice monsignor Dario Viganò, direttore del Centro Televi­sivo Vaticano e critico cinematogra­fico – mentre in Italia spaccò sia il mondo cattolico che quello comu­nista suscitando al tempo stesso a­mori e distanze». L’intellettuale bolognese stava attra­versando un momento di crisi dopo la condanna per vilipendio della religione subìta per La ricotta (episodio del film Ro.Go.Pa.G.) e tra lui e il produttore Alfre­do Bini scoppiò una lite furibonda, come rac­conta il poeta stesso nei versi di E l’Africa?. In seguito, passata la burrasca – ricorda padre Virgilio Fantuzzi, critico cinematografico di Civiltà Cattoli­ca e grande esperto dell’opera pasoliniana –, i due ragionarono sui progetti da realizzare per risolleva­re le sorti della casa di produzione e recuperare cre­dito nell’opinione pubblica dopo la ’batosta’ della sentenza per blasfemia.
«Pasolini voleva fare Padre selvaggio, incentrato sul­la figura paterna, ma era ancora scosso per la vi­cenda de La ricotta e abbandonò l’idea, emotiva­mente troppo coinvolgente». Avrebbe quindi pro­posto a Bini di girare un episodio a soggetto evan­gelico sulla resurrezione di Lazzaro, narrata da san Giovanni, drammaticamente resa dai chiaroscuri di una tela del Caravaggio ed evocata nel film La cio­ciara (come nel romanzo di Moravia) dal partigiano Michele ( Jean-Paul Belmondo) prima di essere cat­turato dai nazisti: una vicenda che lo aveva colpito intimamente pensando al fratello Guido, militante della Brigata Osoppo, ucciso dai titini a Porzûs, e so­prattutto, gli ricordava l’immane dolore provato dal­la madre Susanna in quell’occasione.
«Era il febbraio del 1945 e il papà di Pasolini, Carlo Alberto, si trovava in Africa prigioniero degli ingle­si; il resto della famiglia abitava a Versutta di Casar­sa della Delizia – racconta padre Fantuzzi – e quan­do Susanna seppe della morte di Guido uscì di cor­sa da casa e, in mezzo alla campagna, urlò come u­na bestia ferita». Come la Madonna davanti alla cro­ce nella visione che Pasolini ci ha dato nel film (e proprio alla madre affidò questo ruolo).
Il racconto del gesuita sul colloquio tra Pasolini e Bi­ni prosegue con un particolare inedito: «Alla richie­sta di Pier Paolo di fare un episodio su Lazzaro il pro­duttore avrebbe replicato: ’Perché, allora, non fac­ciamo un film intero sulla vita di Gesù?’». Ma le co­se andarono così? «Bisogna tenere presente che Bi­ni – precisa padre Fantuzzi – era un personag­gio contraddittorio e mi raccontò questa cir­costanza una decina d’anni fa, in modo confuso, tanto da smentirla poco dopo di fronte a una mia richiesta di chiarimen­ti... ». Insomma, fu una sciocchezza but­tata lì nel tentativo di risalire la china. Di questo è convinto anche Roberto Chiesi, del Centro Studi-Archivio Pa­solini di Bologna: «Mi sembra im­probabile, il film ebbe successo ed è facile che qualcuno abbia voluto prendersi meriti che non aveva... Quello che dovremmo ancora sco­prire, invece, è quanti e quali spazi si è ritagliato Pasolini nel descrivere la vicenda di Cristo, pur riprendendo ’punto per punto’ il Vangelo, senza adattamento né sceneggiatura». E in questo sta, forse, il ’nocciolo della que­stione’: riscoprire il ’destino corsaro’ di un uomo, di un intellettuale, che sulla li­bertà si è giocato tutto.